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30 dicembre 2013

Giving up


"Our greatest weakness lies in giving up. The most certain way to succeed is always to try just one more time."



Thomas A. Edison 



 (La nostra più grande debolezza sta nel rinunciare. Il modo più sicuro per avere successo è quello di provare, sempre, solo una volta di più.)

28 dicembre 2013

Il cambiamento, l'immobilismo e la via del giusto mezzo

Sono quasi due mesi che non scrivo sul blog. Ed il motivo è presto detto: avevo approntato un restyling del sito e volevo terminarlo prima di riprendere a scrivere.
Ma di impegno in impegno, di urgenza in urgenza, il tempo è volato e il restyling non l'ho mai ultimato.


Il grosso è fatto, ora si possono raggiungere vecchi articoli più facilmente, si può navigare fra argomenti e per immagini, c'è un link diretto nel footer a (quasi) tutti i miei profili sui social network, un link alla pagina Facebook del WWT che un giorno o l'altro mi deciderò a curare, ci sono nel menù principale i collegamenti ad altri progetti web... eppure il restyling non è completo.

Ogni volta che si decide di cambiare, si rischia di rimanere vittime del proprio desiderio di perfezione. Perfezione che ovviamente non esiste, non può esistere. Eppure si attende ad oltranza, quasi che la mera scelta di innovare abbia esaurito ogni energia da destinare alla "implementazione del cambiamento".

Ecco una conseguenza delle spinte al cambiamento: l'immobilismo. Si trova il coraggio sufficiente per lasciare il lavoro, cambiare città, ma poi ci si arresta sull'uscio, pensando che la strada che si è appena scelto di intraprendere sia troppo lunga, troppo perigliosa ed in definitiva troppo pesante per le proprie gambe.

Quindi attendevo, prima di scrivere un nuovo post; volevo che il restyling fosse ultimato o, semplicemente, temporeggiavo.
Poi mi è caduto lo sguardo su un vecchio libro che avevo letto anni fa, sul pensiero di Confucio e la Via del Giusto Mezzo.
Ed ho avuto la più semplice e sconcertante delle rivelazioni: una volta che decidi di metterti in cammino, accontentati di camminare. L'ansia dell'arrivo fa più lontana la meta e toglie piacere al viaggio.

2 ottobre 2013

Curarsi col #DataMining dalla sindrome #AntiBerlusconiana e #ScetticoGoogoliana

Questa sera ho seguito il telegiornale e le squallide vicende legate al voto di fiducia in Senato. La giornata intensa di lavoro mi aveva preservato dall'apprendere notizie tanto strampalate quanto tragiche per l'Italia.

Quasi fossi un essere di un altro sistema solare, che all'improvviso si rende conto di vivere nel pianeta sbagliato, ho guardato quegli alieni che mandavano in scena una tragi-commedia di cattivo gusto e con una doppia, se non tripla, pessima regia.
Più che sentirmi indignato, per l'ennesima volta, per lo scempio che si fa della politica, mi sono sentito di non appartenere a questa nazione, a questa gente, a questo mondo. Mi sono sentito un alieno che anela il ritorno a casa, al suo pianeta, che deve essere inevitabilmente diverso da questa Italia.

Con tali cupi pensieri in mente, sono andato sul mio blog e ho fatto un semplice esperimento di Data Mining sull'attività di copywriting di questi 7 anni di web presence (per curiosità, non per deformazione professionale).
Berlusconi batteva Google 18 a 17! Ero sconvolto. Non solo per la persistenza nei miei pensieri di un tale personaggio, ma per il fatto che più volte avevo illusoriamente pensato che fossimo arrivati alla fine del dramma, umano e nazionale, chiamato Silvio Berlusconi. E fin troppi post testimoniano tale pia illusione.

Ma non mi sono limitato a tale evidenza, da buon Data Scientist ho proseguito nell'analisi alla ricerca di significato.
Ed ho scoperto alcuni pattern ricorrenti. In entrambi i cluster (post su Berlusconi - post su Google) si riscontrano queste caratteristiche:
  • è sempre presente un tono di critica (evidente nei post su Berlusconi, velato in quelli su Google);
  • i due soggetti entrano nei post anche lì dove il tema centrale non è direttamente collegato a loro (10 post su 18 per Berlusconi, 11 su 17 per Google);
  • in 3 post i due soggetti sono simultaneamente presenti (4 con quello attuale).
Ho validato i pattern: le caratteristiche individuate sono presenti in 32 su 314 post ; 33 su 315 con questo (ben il 10,2% di tutti i contenuti pubblicati).

Ho in fine cercato di dare un'interpretazione ai pattern individuati. E la risposta è stata sconfortante: il lavoro e la politica, più che passioni, sono diventate ossessioni.

Capito il problema, mi auto-prescrivo la cura: da domani si scrive solo di #Golf.

27 settembre 2013

La stanchezza dei #guerrieri

A me la pubblicità corporate di Enel "#guerrieri" è subito sembrata vecchia.


Già vista, già discussa fra addetti del settore, già obsoleta nei temi e nel suo evolversi. L'ho percepita vecchia non solo nel dispiegarsi dello storytelling sui social media, ma anche per le discussioni sull'advertising in sé che avrebbe generato.

Se non avessi letto un articolo di Paolo Iabichino (Il crashtag di Enel), quindi, avrei evitato la mia parte di colpevolezza nel prendere parte alla discussione. Ma stimo Iabichino come pubblicitario e raramente sono in disaccordo con le sue visioni. Provo quindi a contribuire con il mio punto di vista.

La campagna è completamente sbagliata. Ed è sbagliato pensare che una buona fotografia, un buon concept e un buon copywriting possano rendere accettabile quello che è sbagliato dalle fondamenta: toccare le leve emotive di chi davvero non ne può più.
Se anche avessero lanciato la campagna senza logo del cliente, non si sarebbe ottenuto molto più che una procrastinazione del giudizio di condanna, acuito probabilmente anche dall'attesa e le supposizioni sul brand sponsor di tale advertising.

Il problema è che prima di qualsiasi brainstorming creativo bisogna davvero sentire il polso del target. Con "davvero" intendo viverci un mese fianco a fianco, vedere cosa leggono, cosa mangiano, quante notti insonni passano quei #guerrieri.
Così, forse, il brillante copywriter o il marketing manager di turno avrebbe desistito. O avuto un'altra idea.

Sarà che la crisi che stiamo vivendo dura da troppo, troppo tempo. La più lunga che il mondo del marketing abbia mai affrontato. E quindi le pubblicità che fanno leva sui buoni sentimenti e il valore dei #guerrieri si sprecano.
Non occorre ricordare Piazza Italia con "I veri miracoli li facciamo noi" nel 2011 e l'attuale "Io faccio la mia parte", oppure Conad con "Persone oltre le cose". I brand che hanno deciso di percorrere questa strada sono tanti e da troppi anni.

Quando nel 2009 ci fu l'originale campagna "Per Fiducia" di Intesa Sanpaolo, io fui tra quelli che l'apprezzarono e la ritennero una grande operazione, non solo artistico-mecenatica, ma culturale e sociale.
Ma quando, all'inizio del 2012, scrissi un articolo su "L'italianità nella pubblicità (al tempo della crisi)", la misura era già colma. E mai avrei pensato che, col proseguire della crisi, sarebbe rimasto il vezzo, ai creativi svogliati, di percorrere sempre le stesse strade.
Chiunque abbia visto gli spot in TV di Enel si sarà domandato perché i pubblicitari non la smettono di far leva sulla dignità e il coraggio delle persone comuni. E me lo domando anche io.

Trovo quindi la pubblicità #Guerrieri di Enel estremamente vecchia. Perché dopo oltre 5 anni di crisi i pubblicitari potevano inventare qualcosa di più adatto al contesto.

Questo non significa che non esista un modo "tollerabile" ed insieme efficacie di parlare di crisi economica nella pubblicità. Ho trovato ad esempio ben fatta la campagna "Riparti con Eni" dell'estate 2012. Se non ricordo male, anche Paolo Iabichino ne ha scritto bene, ma la mia valutazione non è relativa solo alla tipologia di messaggio o alla scelta del testimonial nello spot televisivo (un simpaticissimo Rocco Papaleo). La carta vincente è stata lo sconto messo in campo da Eni (inusuale per gli standard del settore). C'era sempre fila fuori le pompe di servizio del gruppo petrolifero, nei giorni di sconto.

Una risposta concreta da chi possiede il potere economico, questo vogliono in tempo di crisi i consumatori; non basta più la promessa di valore o la costruzione di un valore percepito.
In tempo di crisi bisognerebbe che anche gli esperti di marketing dell'occidente industrializzato rispolverassero la Piramide di Maslow e si rendessero conto che bisogna ripartire dagli ultimi gradini, dai bisogni primari.

24 settembre 2013

Google, don't be evil... togli il Not Provided e ridacci la Long Tail

Quando nel 2011 dirigevo il reparto di Web Marketing di Archimede, mi trovai ad affrontare il temutissimo "Not Provided" che iniziava a spuntare nei report sul traffico dei siti web per i quali curavamo il posizionamento. Il fino ad allora utilissimo Google Analytics ci forniva dettagliate informazioni su quali chiavi di ricerca usavano gli utenti per accedere ai siti dei nostri clienti ed era quindi un tool fondamentale per l'analisi della Long Tail dei siti, sulla quale basavamo gran parte della strategia SEO.

Purtroppo tale importante insight, a fine 2011, venne a mancare per tutti gli utenti che usavano i servizi di Google. Il colosso di Mountain View dichiarò che intendeva proteggere la privacy degli utenti loggati in uno dei sui servizi (da Gmail a YouTube, passando poi per Google Plus).
Ma io nutrivo dei forti dubbi in merito.
In una sessione di formazione con i colleghi anticipai che Google avrebbe nascosto dietro il "Not Provided" tutte le informazioni legate alle query di ricerca inserite nel proprio motore di ricerca.
Cosa che da ieri è realtà.
E già due anni fa ne intuivo il motivo: fare soldi, ancora di più.
Già, perché se si usa AdWords, il tool di Search Engine Marketing di Google (sempre più costoso negli ultimi anni), le KeyWord di accesso al sito si posso vedere.
Se si integra la visualizzazione dei dati di AdWords in Google Analytics, è praticamente tutto come prima, perché si hanno parole chiave di accesso e dati di traffico (contenuti visualizzati, tempo di permanenza, conversioni e flussi di navigazione). E quindi ogni SEO specialist che voglia analizzare le KeyWord di accesso al sito, da oggi in poi, dovrà necessariamente attivare una campagna AdWords. Oppure usare altre contromisure (io già da 2 anni ne ho messe in piedi alcune) per recuperare le informazioni legate alla Coda Lunga, che conserva un ruolo centrale nelle strategie di posizionamento.

Non che fare soldi sia illegittimo, ma è assurdo che le dichiarazioni dei manager di Google parlino solo di tutela della privacy (mai realmente stata a rischio, anche senza protocollo https).
C'è poca trasparenza in questo modo di agire.

Non avrei mai pensato che, proprio io, estimatore di Big G da sempre, mi trovassi, in meno di un mese, a scrivere due post di critica alle politiche di Google. Ma tant'è.
Forse Google ha dimenticato quel motto che l'ha reso tanto grande e tanto amato dagli utenti: DON'T BE EVIL.

22 settembre 2013

Lean Startup Machine in Milan

Si sta concludendo in queste ore il workshop Lean Startup Machine, per la prima volta in Italia. Avevo partecipato lo scorso aprile a Londra ed ora sono qui come mentor. Ma sempre più per imparare che per insegnare qualcosa. L'unica cosa che non mi stanco mai di dire è che il metodo Lean ti insegna "a sbagliare velocemente". L'avere successo è una conseguenza di questa importante capacità, per ogni startup.

Date un'occhiata alle landing page di validazione dei progetti, per rendervi conto della qualità delle idee in campo in questa edizione milanese:





5 settembre 2013

Perché Android 4.4 KitKat è uno Scherzo Infinito. E perché i nomi sono una cosa seria.

Ormai è sulla bocca di tutti: il prossimo Android 4.4 si chiamerà KitKat.

La tradizione dei naming del sistema operativo per dispositivi mobile di Google raggiunge il suo apice più controverso: non un generico nome di dolce, ma il nome di un brand di prodotto conosciuto e diffuso a livello mondiale.

Questa dunque l'evoluzione dei naming delle varie versioni di Android...
  • 1.5 Cupcake
  • 1.6 Donut
  • 2.0 Éclair
  • 2.2 Froyo
  • 2.3 Gingerbread
  • 3.0 Honeycomb
  • 4.0 Ice Cream Sandwich
  • 4.1 Jelly Bean
  • 4.4 KitKat

Quando la notizia della partnership fra Google e Nestlé è stata ufficializzata, il mio primo pensiero non è stato "che geniale mossa di marketing". E nemmeno "che pessima mossa per Google associare il proprio nome ad una multinazionale così discussa come Nestlé".

Il mio primo pensiero è stato: il Tempo Ante-Sponsorizzazione è finito.
Ovvero mi è tornato alla mente il visionario futuro prossimo descritto da David Foster Wallace nel suo corposo libro Infinite Jest (Lo scherzo infinto), nel quale le multinazionali, alla continua ricerca di spazi per imporre il proprio brand, ottenevano il diritto di sponsorizzare un intero anno solare.
Invece di pratici numeri, entravano così nella mente delle persone (e nella storia) l'Anno della Saponetta Dove in Formato Prova oppure l'Anno del Pannolone per Adulti Depend e perfino l'odiatissimo Anno dell'Upgrade per Motherboard-Per-Cartuccia-Visore-A-Risoluzione-Mimetica-Facile-Da-Installare Per Sistemi TP Infernatron/InterLace Per Casa, Ufficio, O Mobile Yushityu.
Il periodo prima di questa rivoluzione veniva indicato come Tempo Ante-Sponsorizzazione.
D'altronde il nome del tempo ha sempre rivestito un ruolo importante nelle "strategie di comunicazione" di imperi e regimi, non a caso i mesi dell'anno in Occidente ci ricordano ancora nomi di dei o imperatori romani. Perché il tempo è di tutti e misurarlo, "chiamarlo" è una necessità imprescindibile. E non a caso ci sono state "rivoluzioni" nei naming per affermare nuove ere, come nel caso del Calendario Rivoluzionario Francese.


Ecco perché la decisamente invasiva mossa di usare il naming di due prodotti molto diffusi per fare una gigantesca operazione di co-marketing mi è sembrato il campanello d'allarme definitivo: ormai nemmeno i nomi sono al sicuro. Il Tempo Ante-Sponsorizzazione è finito.
Il "nomina sunt consequentia rerum" di giustiniana memoria, diventa quindi un "nomina sunt serva rerum", stravolgendo il ruolo stesso dei nomi nella comunicazione fra le persone.

Non starò qui ad analizzare tutte le teorie di neuro-marketing che sottostanno alla partnership tra Google e Nestlé, né voglio schierarmi a favore o meno di tale scelta. Voglio solo evidenziare che è una mossa di portata epocale.
Il fatto che qui non si stia giocando con i nomi dei mesi o degli anni, ma su quelli di prodotti realizzati da aziende private, non diminuisce la portata storica dell'operazione. Nell'epoca del consumismo i prodotti diffusi a livello globale sono beni pubblici.
Se la Nutella decidesse di chiamarsi Crema di Silvio Berlusconi, dopo una OPA aggressiva di Fininvest verso Ferrero, come vi sentireste??
Smettereste di mangiare Nutella? Scrivereste a Giorgio Napolitano per concedere la grazia a Silvio?
Insomma, nessuno vuole trovarsi in una situazione del genere!

Lo so, starete pensando "Ma dai, è un'esagerazione! Il Berlusca non potrebbe cambiare il dome di Nutella in Crema di Silvio Berlusconi". Guardate che non è fantascienza o fanta-marketing, perché è già successo. Da circa vent'anni milioni di italiani non gridano più Forza Italia quando guardano le partite della nazionale...

Ma allora non c'è speranza, siamo condannati a vedere sulle carte di identità dei nostri figli che sono nati nell'Anno dell'iPhone 8s oppure in quello della Pasta Fresca Fresca & Buona Buona Giovanni Rana oppure (Dio non voglia!) nell'anno della Crema di Silvio Berlusconi??
Non credo.
Avete mai sentito un francese dire che torna dalle ferie dopo il Cardo del Fruttidoro? O che fa il compleanno di Brumaio, nel giorno del Tacchino? Io no. Evidentemente nemmeno la determinazione dei rivoluzionari francesi è riuscita ad imporre le proprie strategie di comunicazione. Col tempo, il buon senso trionfa sempre. O almeno spero.

Ma ora torniamo al tema centrale e al titolo del post.
Questo post doveva intitolarsi Google, Nestlé e la profezia di David Foster Wallace. Ma poi ho pensato che, per coerenza, il focus doveva essere sui prodotti, perché sono loro la chiave per comprendere l'importanza dei naming. Come ho scritto prima, in questa epoca storica i prodotti di largo consumo vanno considerati beni pubblici. E un bene pubblico non può essere trattato con leggerezza.
Nel corso della mia carriera professionale ho lavorato alla scelta di decine di naming di aziende, brand o prodotti, ed ho sempre avuto piena consapevolezza dell'importanza dei nomi che andavo a proporre.
Nella Bibbia "dare il nome" ha un significato ben preciso: significa avere facoltà di dominio sulle cose nominate. Ma a tale facoltà è associata una grande responsabilità. I genitori danno i nomi ai loro figli, ma li custodiscono e li crescono.
Se si abusa della facoltà di dare i nomi senza associarvi una buona dose di responsabilità, si commette un errore imperdonabile.

Per spiegare il concetto con un esempio, è come se, per fare eticamente un'operazione di co-naming come quella siglata dalle due multinazionali, Nestlé avesse dovuto prima assicurarsi che il codice sorgente del sistema operativo Android 4.4 fosse ben fatto e non nascondesse insidie (come porte aperte per la sottrazione di dati all'insaputa degli utenti) e Google avesse dovuto investigare sulle strategie di vendita di latte in polvere della Nestlé alle mamme non abbienti africane.

La domanda è: credete che Nestlé abbia assunto programmatori per l'analisi del codice di Android o Google abbia mandato medici in Africa prima di siglare l'accordo?




29 agosto 2013

Io c'ero - Lettere di un padre alla figlia

Titolo del libro

"Io c'ero - Lettere di un padre alla figlia"


Quarta di copertina

«Quando ti ho scattato questa foto io ero in bilico su un pontile traballante della riva sud-ovest del lago di Como. Tu volevi che nella foto venissero anche le papere e quella era l'unica posizione possibile che accontentasse anche tua madre, che voleva venissero nello sfondo le ville sui verdi pendii attorno al lago. Dopo lo scatto caddi nell'acqua e l'unico pensiero fu quello di salvare la macchina fotografica. La qual cosa, fortunatamente, mi riuscì. Tu avevi tre anni, ridevi di gusto nel vedermi tutto bagnato, ed io ero colmo di gioia per averti fatto ridere. E per aver tenuto il rullino lontano dall'acqua.»

Ogni lettera una foto, ogni foto una situazione, un luogo, un'atmosfera, un ritratto di famiglia in cui manca sempre il padre. Dal primo giorno di vita fino ai 18 anni, Marco Latuni ha scattato migliaia di foto alla figlia, senza mai essere incluso nelle stesse. Per questo decide di tenere una sorta di diario segreto in cui "si include" nello scatto, raccontando alla figlia, per ogni foto, tutto ciò che c'era "aldiqua" della macchina fotografica: lui, con i suoi pensieri, le sue emozioni, il suo ruolo nella gita di famiglia o nella festa di quartiere.
Scrive in un capitolo: «Forse sono l'unico padre al mondo cui mai nessuno ha proposto "Dai che questa la scatto io". E forse sono la persona che più di ogni altra l'avrebbe desiderato.»


Washington Post: «Un album di famiglia che è, in realtà, un'opera letteraria.»

El País: «Commovente, a tratti struggente. La vera storia di un padre, che racconta alla figlia ogni scatto in cui l'ha ritratta e nel quale, ovviamente, non è presente.»

Il Libraio: «Il caso letterario dell'anno, da un autore sconosciuto al grande pubblico. Più di 100.000 copie vendute in un solo mese.»

The Sun: «Nelle intenzioni di Marco Latuni le tante lettere associate alle tante foto avrebbero testimoniato alla figlia che, in ogni momento importate della sua vita, lui c'era. Voleva rilegarle e regalargliele al compimento dei 18 anni. Ma la figlia scappa di casa la notte del suo diciottesimo compleanno. E Latuni, per raggiungerla, non ha altra scelta che pubblicare le lettere. Umberto Eco ha scritto recentemente: "È un bene per la letteratura mondiale che quella ragazza sia scappata di casa"


Autore

Marco Latuni è al suo primo libro alla tenera età di 46 anni. Giardiniere di professione da vent'anni e fotografo della domenica da una vita, non ha mai scritto molto più che qualche fattura. Eppure "Io c'ero" è diventato un bestseller a pochi mesi dalla pubblicazione.
Il suo stile è semplice, lineare e insieme profondo e toccante. Parla al cuore di chi lo legge, e ai migliaia di padri che si immedesimano nelle emozioni che descrive.


20 agosto 2013

Il sole a Milano


«Il sole, ogni tanto, sorge anche a Milano.»

Da "Venere privata", di Giorgio Scerbanenco



11 agosto 2013

Perché preferisco la montagna al mare

In questi giorni di salsedine e sabbia, sono arrivato a maturare la ferma convinzione che preferisco la montagna al mare.
Ed il motivo è presto detto.

Il mare è sporco, la montagna è pulita; il mare è volgare, la montagna è elegante.
Non mi riferisco a concetti di sporco/pulito e volgarità/eleganza in senso stretto, ma metaforico, più legato ai frequentatori delle località turistiche che ai luoghi stessi.


Innanzitutto il turista marino sceglie la meta della propria villeggiatura con criteri che non condivido. Per i più la bellezza naturalistica non è importante, l'importante è che il luogo sia affollato, dotato di vita notturna e possibilmente conosciuto, per potersi vantare opportunamente, al rientro dalle ferie, della propria abbronzatura. Per qualche ragione misteriosa, un'abbronzatura fatta a Rimini è più apprezzata di una fatta a Castel Volturno.

L'umanità che incroci al mare è rumorosa, sporca, perfino volgare nei gesti che compie.
I corpi al sole sanno di vanità e sudore, di ozio e crema abbronzante. Il gesto più nobile che puoi veder compiere ad un corpo al sole è leggere, ma la percentuale di libri diversi dal thriller commerciale e dal romanzo rosa è prossima allo zero (si noti che dalla statistica ho escluso La Settimana Enigmistica e rotocalchi vari, perché renderebbero ridicolo qualsiasi tentativo di scorgere aneliti culturali nei villeggianti).
Per il resto del tempo il corpo al sole parla, beve, mangia, suda, fuma, rumoreggia, ascolta musica di dubbio gusto, e spesso fa tutto questo insieme.

Il bagnante è sempre sporco, per quanto si sforzi di rimanere pulito. Non è solo la sabbia il problema, ma la stessa acqua di mare. La salsedine sulla pelle lascia un senso di appiccicaticcio che rende fastidioso qualsiasi movimento e concede al villeggiante l'alibi per lasciarsi andare a movimenti sgraziati, ad atteggiamenti poco eleganti.

Si badi che non c'è alcun giudizio di valore (sono anche io "un corpo al sole" in questi giorni), ma solo una mera constatazione di come il luogo influenzi il comportamento animale.

La montagna, invece, è l'opposto.
Il turista che preferisce la montagna, già nello scegliere la località, si concede lunghi momenti di riflessione, perché non vuole solo un luogo, cerca un'atmosfera. Quell'atmosfera che gli consentirà di elevarsi, di riposarsi ma insieme temprarsi, nello spirito e nel corpo.

Il villeggiante montano è elegante, qualsiasi cosa faccia. 
Quando intraprende un impervio sentiero alpino ha gli occhi fissi alla meta, ma è capace di godersi il percorso. Suda anche lui, ma non puzza. Ha uno scopo quel suo sudare, è la nobile fatica dell'ascesa.

Quando l'escursionista si concede un bagno in un limpido ruscello alpino, ne esce ristorato e pulito. La fredda acqua gli tonifica i muscoli e gli dona nuovo vigore per proseguire nella salita.
Quando mangia, il turista montano, lo fa con eleganza, parsimonia. Introduce le calorie necessarie al corpo, non una di più, perché ha dovuto scegliere con cura i pesi da mettere nel suo zaino.

Esattamente l'opposto di quanto accade a mare.
Quando mangia il copro al sole introduce molte più calorie di quelle che ha bruciato stando in ammollo nell'acqua, e lo fa con foga, quasi avesse paura di non riuscire a finire tutte le lasagne e panini e pizzette e bombe alla crema e gelati stivati nel suo frigorifero portatile o comperati al bar del lido.
Il mangiare per il villeggiante marino è l'attività principale, che ha una fitta pianificazione oraria: colazione, spuntino di metà mattina, pranzo, merenda, aperitivo, cena, dopocena, spaghettata di mezzanotte.

Per il villeggiante montano, invece, mangiare è un'attività marginale. Deve tener presenti gli orari dell'alba e del tramonto, i tempi di salita e discesa da una cima, deve evitare acquazzoni e subitanei cambiamenti del tempo, per cui il magiare diventa l'unica attività che non occorre pianificare, ma che esegue nei ritagli di tempo, magari in una breve pausa davanti un paesaggio mozzafiato. E si ferma per il paesaggio, non per mangiare.
Sarà anche per questo che il turista montano magia lentamente, con gusto ma senza foga, con una certa eleganza nei gesti e con tanta profondità nello sguardo volto al cielo e alle cime.

Guardate, invece, il bagnante mangiare. Osservatelo davvero, con l'occhio critico del documentarista che sta filmando una specie animale per scorgerne i tratti distintivi, guardatelo come se doveste scrivere un trattato di etologia.
Scoprirete che ha uno sguardo selvaggio nell'addentare quel panino farcito di salsiccia e formaggio o quel tramezzino al tonno. Lo vedrete in crisi se non riesce ad aprire la bottiglia di birra con l'accendino ed imprecare se gli cade una fetta di anguria nella sabbia, pur avendone diversi chili a disposizione nella borsa termica.
A sera, nel ristorante dell'hotel o in una trattoria sul lungomare, conserva quella fame insaziabile, caratteristica solo di chi oziato per tutta la giornata. Beve vino bianco ghiacciato, per questo ne beve tanto e non ne apprezza il gusto, suda mentre mangia anche se c'è l'aria condizionata ed è sempre pronto a criticare il piatto se le porzioni non sono generose.
Il villeggiante marino continua a bere cocktail ghiacciati per tutta la sera e gran parte della notte, per risultare il più simpatico della compagnia ed evitare silenzi imbarazzanti, che rivelerebbero il vuoto assoluto che ha generato la giornata a mare.

Il turista montano, invece, è controllato e distinto in ogni gesto del suo desinare. Anche a pranzo mangia "una colazione" al sacco, non un panino superfarcito. E la sera conserva il senso per il cibo che ha sperimentato nelle escursioni della giornata. Ne apprezza il potere ristoratore, dosa i bocconi, mangia con eleganza e si gode la stanchezza dei muscoli insieme al calore di un calice di vino rosso.
Se beve dopo cena una grappa o un amaro, è per ritrovarsi con se stesso ancora più in profondità, non per dire spiritosaggini ai compagni di tavola.
Il turista montano non teme il silenzio, anzi lo cerca.

Il turista marino si sveglia tardi col mal di testa per le orgie di cibo e futile socialità mondana della notte prima, sconta in spiaggia tale stanchezza cronica e cerca nel sole e nel chiacchiericcio una forma di consolazione al vuoto che sente dentro.

Il turista montano si sveglia presto e l'alba lo coglie già in marcia sui sentieri più belli. È riposato e sereno e cerca nella fatica dell'ascesa e nella bellezza dei paesaggi quel barlume di infinito che sa di avere dentro.

In definitiva in montagna cerchi (e spesso trovi) te stesso. Al mare cerchi gli altri per fuggire da te stesso. Ne consegue un'umanità nobile e pulita nel primo caso, corrotta e sgraziata nel secondo.

Sarà per questa distanza abissale tra mare e montagna che preferisco la seconda. Eppure, da tre anni, passo più giorni a mare che in montagna. Non per mia scelta, beninteso, è che dicono faccia bene ai bambini. E con due piccole da crescere, per giunta sempre col raffreddore, mi sento in dovere di essere anche io "un corpo al sole".
Ma, da esperto di marketing, nutro il sospetto che la storia dello iodio sia solo una bugia del mercato, per affollare le spiagge e tenere silenti e protette le cime delle montagne.