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28 settembre 2012

Buon Vento

Oggi, per salutare i colleghi di Archimede, ho organizzato un momento di ritrovo dall'emblematico titolo "McDonald's Party - ovvero, come dire addio (alla linea)".

Ho lasciato a ciascuno una lanterna cinese e una lettera (che riporto di seguito). Loro mi hanno "steso" con due post sul Blogfolio di Archimede:




Trento, 28 settembre 2012

Quando a sedici anni feci un corso di vela alla Maddalena, imparai un saluto marinaresco denso di significato: “Buon Vento”.
Era un saluto cordiale, che ci scambiavamo, fra i partecipanti al corso, ogni mattina, prima di salire sulle nostre derive e prendere il largo.

Era un saluto che verso la fine del corso iniziammo a scambiarci a prescindere dal fatto che stessimo per salire o meno su una barca a vela. Iniziò a sostituire via via tutte le frasi di commiato nelle lettere e e-mail scambiate dopo il corso, tutti i vari ciao, addio, in bocca al lupo, a presto, ti auguro il meglio, buona fortuna per tutto, take care, see you, ecc.. Era praticamente diventata l’unica forma di saluto usata da chi aveva preso parte a quel corso estivo. Perché?

Per diverse ragioni, per la maggior parte inconsce. La prima è che è indubbiamente più poetico e meno banale di un ciao, a presto e perfino di un addio; a sedici anni, poi, faceva anche figo; infine, ci ricordava l’esperienza vissuta insieme. Ma c’era dell’altro. E c’è dell’altro se a distanza di tanto tempo lo ricordo ancora così nitidamente. Era l’unico vero saluto in grado di descrivere il nostro stato d’animo.

Perché chi va per mare sa che non esiste la sola fortuna, come non esiste il solo coraggio o la sola bravura nella navigazione. La riuscita di un viaggio in mare è il risultato di tanti fattori; alcuni dipendenti da noi, altri no. Bisogna certamente sapere quando cazzare la randa o lascare il fiocco, ma se c’è un vento impetuoso rischi di scuffiare lo stesso, così come se c’è bonaccia non vai da nessuna parte.

Il “Buon Vento” sintetizza quindi questa consapevolezza: ti auguro che tutti i fattori da te non dipendenti, siano a te favorevoli. Ma non in maniera deterministica, non nel senso “ti auguro un vento forte e constante in poppa, che ti porti dove voi arrivare”. Un buon vento è buono anche se tira dalla parte sbagliata, ma magari ti fa scoprire nuovi lidi, ti porta a nuove avventure nelle quali non ti saresti imbattuto altrimenti.
E nello stesso tempo ha implicito un concetto: esci dal porto e dispiega le vele, solo così potrai veleggiare verso nuovi lidi, sospinto dal buon vento.

Ecco, questo è l’augurio che mi sento di fare ad Archimede e ad ognuno di voi. Che possiate arrivare lontano, sospinti da un vento favorevole.

Vi lascio, a suggello di questo augurio, una lanterna cinese, che metaforicamente sintetizza bene i concetti di sopra: ha bisogno di un vento favorevole per volare lontano, ma deve anche trovare dentro di sé l’energia per alzarsi in volo.

Buon Vento!



Il Lavoro al tempo della crisi

Spesso un titolo vale un libro, o un film, o un quadro, o una poesia.
Ci sono poesie che senza titolo sarebbero monche, quadri che senza il nome giusto comunicherebbero molto meno, ci sono titoli più belli dei film stessi e libri che più che leggere, val la pena "immaginarseli", lasciandosi suggestionare dal mero titolo.

È questo il caso, per me, de "L'amore ai tempi del colera" di Gabriel García Márquez. Non che l'autore non mi piaccia, anzi, lo trovo struggente e avvincente al tempo stesso, amaro e immaginifico, "reale" e "magico", se vogliamo inquadrarlo letterariamente.
Però questo suo libro ho deciso di non leggerlo; per il gusto di immaginarmelo.

Mi immagino la forza dell'amore, che resiste al tempo e alle distanze. Mi immagino paesi prostrati da calamità naturali e malattie, scenari di dolore nei quali due giovani si cercano, si trovano, sia amano. Immagino la forza del sentimento, che anche nelle situazioni più difficili, come una pestilenza o una crisi sociale, trova in sé le motivazioni per andare avanti, per andare oltre.

Ecco, qualcosa di simile pensavo quando meditavo di scrivere il post in cui avrei comunicato la mia scelta di lasciare il lavoro in Archimede. Pensavo ad un titolo che sintetizzasse da una parte la difficoltà di una scelta, dall'altra l'ineluttabilità di quella scelta stessa. Un titolo che evidenziasse la difficoltà del contesto, ma che non fosse pessimista. Un titolo a suo modo poetico, ma anche crudo e realista.
Ricordando quindi il libro mai letto di Márquez, ne è uscita una riscrittura in chiave moderna: Il Lavoro al tempo della crisi.
Da una parte il Lavoro, forza motrice e vitale quanto l'Amore. Dall'altra la crisi, contesto avverso e insidioso quanto il colera. E poi "al tempo" più che "ai tempi" poiché, ahimè, non posso permettermi di evocare una prospettiva storica.

Pensavo poi allo svolgimento del post, a come avrei potuto spiegare una scelta che di razionale ha apparentemente ben poco; come giustificare la rinuncia ad un posto fisso, ad un buono stipendio e a un ruolo di responsabilità, senza nemmeno aver cercato prima un'alternativa. Una scelta, poi, che ha del folle se si pensa che siamo nel pieno di una crisi economica, nel bel mezzo di una situazione catastrofica sul piano dell'occupazione nel nostro Paese.
E più ci pensavo, più pensavo al titolo scelto, più si faceva chiara in me la risposta....

Ebbene la spiegazione è nel termine "Lavoro", o per lo meno nei significati che io attribuisco a questa parola.
Forse a causa degli studi giovanili sul pensiero di Marx, o per gli insegnamenti di mio padre (che ho già avuto modo di ricordare), ho sempre ritenuto il Lavoro come qualcosa di "sacro" (non a caso con la L maiuscola).
La sua importanza e centralità nella Costituzione mi rendeva orgoglioso di essere italiano (molti, ma molti anni fa).

In breve, ho sempre ritenuto il Lavoro un'attività talmente importante nella vita di una persona, da credere che dovesse essere qualcosa di più che un mezzo per garantire il sostentamento a sé e alla propria famiglia. Doveva per forza di cose essere anche un fattore di crescita personale, un modo per fare qualcosa per la società, per il bene comune.
Queste che erano considerazioni "ideologiche" di gioventù, col tempo, arrivando a lavorare anche 16 ore al giorno, sono diventate un'esigenza palese, poiché di tempo per fare altro non è che ne resti molto.

Ma per fare bene il proprio lavoro servono una miriade di "condizioni al contorno" spesso non dipendenti da se stessi (e nonostante l'impegno, la passione e i sacrifici, spesso nemmeno modificabili).
Che fare quindi quando il tuo modo di lavorare, in termini di professionalità, qualità e obiettivi di crescita personale non è perseguibile?
Diciamo che in una società "normale" la risposta sarebbe scontata: cambiare lavoro (tipo o luogo, non importa, ma comunque cambiare).

E qui veniamo al colera. O meglio, alla crisi.
In tempo di crisi, anche se solo economica, tutto cambia. La nostra percezione del lavoro cambia. I telegiornali ci ricordano continuamente l'aumento del tasso di disoccupazione, i giornali pubblicano statistiche sul dissesto finanziario del Paese, ed i lavoratori da insoddisfatti pronti al cambiamento diventano insoddisfatti frustrati. Il sistema da dinamico diventa statico, fino poi a implodere su se stesso.
La società ci induce in uno stato di paura. Perfino gli scopi della vita, insieme a quelli professionali, vengono ridimensionati; e ci si accontenta di passare da una modalità "voglio realizzarmi come persona e come professionista" a "voglio mantenere il lavoro".

Ma la condizione in cui non si è liberi di autodeterminarsi è uno status che le società moderne dovrebbero definitivamente superare. E se le "condizioni al contorno" non lo permettono, allora la forza bisogna trovarla dentro di sé, nelle ragioni profonde del desiderio di cambiamento.

Nel mio caso, quindi, è proprio l'alta concezione che ho per il Lavoro che mi ha portato a rinunciare a quello che avevo.
Non si può scendere a compromessi su una cosa così importante. Anche, e forse soprattutto, in tempo di crisi. Perché la crisi ha le sue radici più profonde proprio nel disprezzo del Lavoro reale e nell'abbrutimento delle condizioni imposte alle parti più deboli.
Riscoprendo la centralità del Lavoro nella vita di ogni individuo, i governi e le aziende non possono che indirizzare tutti i loro sforzi per permettere la piena realizzazione dei cittadini anche attraverso il Lavoro. In questo "rispetto" di una società per il Lavoro, si nasconde il seme della ricchezza e dell'equità distributiva.

Avendo sempre presenti queste considerazioni, non è stato poi così difficile addivenire ad una scelta (comunicata a luglio, ma effettiva dal 29 settembre 2012).

Oggi, quindi, è il mio ultimo giorno di lavoro in Archimede.
Lascio con vero rammarico tutti i colleghi, tanti progetti, alcuni clienti (e non è un anticlimax). Ma tutto sommato sono sereno perché, come ho scritto ad un cliente ed amico comunicandogli le mie dimissioni tempo fa, "la crescita, che sia personale o professionale, non è mai un processo lineare: a volte richiede degli strappi."


16 settembre 2012

Confessioni di un SEO Specialist pentito

Dopo anni e anni passati a posizionare siti web nei motori di ricerca (i primi esperimenti risalgono al lontano 2001), ho visto vere e proprie "rivoluzioni" negli algoritmi usati dai vari Lycos, Altavista, Yahoo!, Virgilio, Google. Chi ne ha fatte di più ha vinto la sfida e ora detiene l'84% della quota di mercato. Indovinate chi è?

Sì, Big G. E siccome l'evoluzione è alla base del suo successo, continua ad essere un imperativo nella sua strategia di mantenimento della leadership fra i motori di ricerca.

Da responsabile del reparto che cura il posizionamento per molti dei siti web realizzati da Archimede, ho sempre ritenuto la ricerca e la sperimentazione alla base di una strategia SEO efficace.  Di volta in volta ho cercato di essere un passo avanti. Pensavo a come io avrei migliorato l'algoritmo di ricerca e dopo qualche mese quelle evoluzioni diventavano realtà. Quando fai un'ipotesi su come funziona l'algoritmo è più facile fare dei test per suffragare o confutare la tua ipotesi. È molto più veloce del reverse engineering (perché servirebbero migliaia e migliaia di esperimenti, cambiando poche variabili alla volta, per venire a capo di un algoritmo complesso e adattativo come quello di Google); ma c'è un limite: servono idee, bisogna formulare ipotesi, bisogna entrare nella mente di Big G.

Ed io l'ho fatto per 11 anni, basandomi su ipotesi razionali che di volta in volta trovavano conferma. Ma le evoluzioni più difficili da prevedere sono quelle che non si ritengono valide. Quelle che io non avrei fatto. Ed è arrivato il momento in cui la sfida con Google è diventata troppo difficile; o meglio non mi appassiona più di tanto, perché segue un filone che io non avrei enfatizzato come invece sta avvenendo in questi ultimi mesi.

Mi spiego.
Più di un anno fa scrivevo di come la referenza sociale avrebbe cambiato i risultati delle nostre ricerche sul Web 3.0. E ancora prima ipotizzavo l'uso di sistemi di monitoraggio della user experience su un sito per decretarne il successo o meno in una SERP (Search Engine Results Page). Spiegavo di come Google voleva migliorare il suo algoritmo inserendo il "fattore umano", poiché a livello di evoluzione tecnologica e semantica non poteva andare oltre.
Tutte queste ipotesi sono state poi confermate, o direttamente da interviste rilasciare dai top manager di Google o da diversi esperimenti,  miei come di altri SEO Specialist.

Il vantaggio indubbio di questa strategia, per Google, è che non deve più garantire alcuna "oggettività" della pertinenza di una chiave di ricerca rispetto ai risultati. Già da anni le sue SERP variano in base a fattori di localizzazione della query di ricerca, orario e perfino monitoraggio delle precedenti ricerche fatte da quell'utente. Ora Google ha preponderantemente introdotto anche l'influenza delle reti sociali di un dato utente, o di cluster simili di utenti.
Questo significa che se io per Google sono un utente web inquadrato in una cerchia di utenti tipo, anche se non ho amici che direttamente hanno fatto "+1" o "I-Like" su un contenuto, ma quel contenuto è stato referenziato da utenti appartenenti ad un cluster simile al mio, potrei vederlo come risultato delle mie ricerche prima di altri contenuti, anche più pertinenti rispetto alle parole chiave utilizzate nella mia query.

La strategia è chiara: non una, non cento, non mille, ma milioni di SERP differenti. Il che per qualcuno potrebbe anche essere una scelta intelligente: con l'affollarsi dei contenuti prodotti quotidianamente dalla rete non è pensabile che ci siano solo i 10 posti della prima pagina di Google come finestra di visibilità rispetto ad una stessa keyword o key-sentence.

Ma ci sono due problemi: il primo riguarda il fatto che le persone sono abituate mentalmente "all'oggettività dei risultati" nelle ricerche web. Anzi, è stato un dei fattori di successo dei motori di ricerca. Immaginate un amico che vi consiglia un sito di cui non ricorda il dominio e vi dice: «Digita la sigla WWT in Google, lo trovi come quinto risultato». Ma voi, per quanto vi sforziate, non riuscite a trovarlo, perché per voi quel sito si trova all'inizio della quarta pagina dei risultati di Google. La prossima volta vorrete il dominio esatto, non un riferimento così "aleatorio" come una keyword.

Il secondo problema riguarda i SEO Specialist. Quelli che come me hanno il compito di garantire la visibilità a siti web che non vogliono sprofondare nel mare magnum della rete.
Da sempre Google ha cercato di fare la guerra a chi scopriva e aggirava (o sfruttava) i meccanismi di funzionamento del suo algoritmo. Ha introdotto il fattore umano anche per questo, perché lo riteneva meno "aggirabile". Ma in questo si sbaglia.
Il SEO di domani sarà proprio giocato sulla persone. Lì dove prima si usavano keyword, META, link, ora si utilizzeranno +1, I-Like, twitter. In pratica i SEO Specialist diventeranno più dei sociologi che degli web specialist, studieranno come influenzare gruppi di persone e indurli a compiere azioni. Faranno esperimenti sul valore della referenza generata in un dato canale, per capirne l'efficacia, proprio come ho fatto io ultimamente:


Questo modo di procedere sarà molto diverso da come è stato finora. E la colpa è in parte anche dei tanti specialisti come me che hanno sempre "sovra-ottimizzato" i siti web che volevano posizionare.

La Search Engine Optimization si giocherà quindi su altri fattori.
Io la chiamo "Alchimia Sociale". Per il posizionamento di un portale turistico il SEO Specialist metterà nel pentolone una brocca di mamme quarantenni con figli, due mestoli di uomini quarantacinquenni alto-spendenti sposati, una manciata di giovani snowboarder, tre cucchiai di biker  e per finire una spolverata di blogger amanti dei viaggi, che non guasta mai. Mescoleranno e porteranno ad ebollizione.
Questo è il SEO di domani. A meno che Google non capisca che errore sta facendo è inizi a fare un passo indietro. Cosa che io reputo possibile. Non a caso da molto tempo ho avviato un filone di ricerca parallelo sui sistemi di catalogazione universali.
Un ritorno alle directory? Non proprio. Piuttosto modi evoluti di gestire semanticamente i processi di catalogazione dei contenuti web, creando regole condivise di etichettatura e integrando questi processi di catalogazione con funzioni evolute di ricerca, basate sugli schemi di funzionamento delle reti neurali.

E mi fermo qui; perché va bene condividere il know-how, ma sempre meglio essere un passo avanti alla concorrenza. Anche perché, se questa sarà la via che prenderanno i motori di ricerca, potrei voler tornare a fare il SEO Specialist...


4 settembre 2012

Esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele

Twenty years from now you will be more disappointed by the things that you didn’t do than by the ones you did do. So throw off the bowlines. Sail away from the safe harbor. Catch the trade winds in your sails. Explore. Dream. Discover. 
Mark Twain
(Tra vent’anni sarai più deluso dalle cose che non hai fatto che da quelle che hai fatto. Perciò molla gli ormeggi, esci dal porto sicuro e lascia che il vento gonfi le tue vele. Esplora. Sogna. Scopri.)