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29 agosto 2013

Io c'ero - Lettere di un padre alla figlia

Titolo del libro

"Io c'ero - Lettere di un padre alla figlia"


Quarta di copertina

«Quando ti ho scattato questa foto io ero in bilico su un pontile traballante della riva sud-ovest del lago di Como. Tu volevi che nella foto venissero anche le papere e quella era l'unica posizione possibile che accontentasse anche tua madre, che voleva venissero nello sfondo le ville sui verdi pendii attorno al lago. Dopo lo scatto caddi nell'acqua e l'unico pensiero fu quello di salvare la macchina fotografica. La qual cosa, fortunatamente, mi riuscì. Tu avevi tre anni, ridevi di gusto nel vedermi tutto bagnato, ed io ero colmo di gioia per averti fatto ridere. E per aver tenuto il rullino lontano dall'acqua.»

Ogni lettera una foto, ogni foto una situazione, un luogo, un'atmosfera, un ritratto di famiglia in cui manca sempre il padre. Dal primo giorno di vita fino ai 18 anni, Marco Latuni ha scattato migliaia di foto alla figlia, senza mai essere incluso nelle stesse. Per questo decide di tenere una sorta di diario segreto in cui "si include" nello scatto, raccontando alla figlia, per ogni foto, tutto ciò che c'era "aldiqua" della macchina fotografica: lui, con i suoi pensieri, le sue emozioni, il suo ruolo nella gita di famiglia o nella festa di quartiere.
Scrive in un capitolo: «Forse sono l'unico padre al mondo cui mai nessuno ha proposto "Dai che questa la scatto io". E forse sono la persona che più di ogni altra l'avrebbe desiderato.»


Washington Post: «Un album di famiglia che è, in realtà, un'opera letteraria.»

El País: «Commovente, a tratti struggente. La vera storia di un padre, che racconta alla figlia ogni scatto in cui l'ha ritratta e nel quale, ovviamente, non è presente.»

Il Libraio: «Il caso letterario dell'anno, da un autore sconosciuto al grande pubblico. Più di 100.000 copie vendute in un solo mese.»

The Sun: «Nelle intenzioni di Marco Latuni le tante lettere associate alle tante foto avrebbero testimoniato alla figlia che, in ogni momento importate della sua vita, lui c'era. Voleva rilegarle e regalargliele al compimento dei 18 anni. Ma la figlia scappa di casa la notte del suo diciottesimo compleanno. E Latuni, per raggiungerla, non ha altra scelta che pubblicare le lettere. Umberto Eco ha scritto recentemente: "È un bene per la letteratura mondiale che quella ragazza sia scappata di casa"


Autore

Marco Latuni è al suo primo libro alla tenera età di 46 anni. Giardiniere di professione da vent'anni e fotografo della domenica da una vita, non ha mai scritto molto più che qualche fattura. Eppure "Io c'ero" è diventato un bestseller a pochi mesi dalla pubblicazione.
Il suo stile è semplice, lineare e insieme profondo e toccante. Parla al cuore di chi lo legge, e ai migliaia di padri che si immedesimano nelle emozioni che descrive.


20 agosto 2013

Il sole a Milano


«Il sole, ogni tanto, sorge anche a Milano.»

Da "Venere privata", di Giorgio Scerbanenco



11 agosto 2013

Perché preferisco la montagna al mare

In questi giorni di salsedine e sabbia, sono arrivato a maturare la ferma convinzione che preferisco la montagna al mare.
Ed il motivo è presto detto.

Il mare è sporco, la montagna è pulita; il mare è volgare, la montagna è elegante.
Non mi riferisco a concetti di sporco/pulito e volgarità/eleganza in senso stretto, ma metaforico, più legato ai frequentatori delle località turistiche che ai luoghi stessi.


Innanzitutto il turista marino sceglie la meta della propria villeggiatura con criteri che non condivido. Per i più la bellezza naturalistica non è importante, l'importante è che il luogo sia affollato, dotato di vita notturna e possibilmente conosciuto, per potersi vantare opportunamente, al rientro dalle ferie, della propria abbronzatura. Per qualche ragione misteriosa, un'abbronzatura fatta a Rimini è più apprezzata di una fatta a Castel Volturno.

L'umanità che incroci al mare è rumorosa, sporca, perfino volgare nei gesti che compie.
I corpi al sole sanno di vanità e sudore, di ozio e crema abbronzante. Il gesto più nobile che puoi veder compiere ad un corpo al sole è leggere, ma la percentuale di libri diversi dal thriller commerciale e dal romanzo rosa è prossima allo zero (si noti che dalla statistica ho escluso La Settimana Enigmistica e rotocalchi vari, perché renderebbero ridicolo qualsiasi tentativo di scorgere aneliti culturali nei villeggianti).
Per il resto del tempo il corpo al sole parla, beve, mangia, suda, fuma, rumoreggia, ascolta musica di dubbio gusto, e spesso fa tutto questo insieme.

Il bagnante è sempre sporco, per quanto si sforzi di rimanere pulito. Non è solo la sabbia il problema, ma la stessa acqua di mare. La salsedine sulla pelle lascia un senso di appiccicaticcio che rende fastidioso qualsiasi movimento e concede al villeggiante l'alibi per lasciarsi andare a movimenti sgraziati, ad atteggiamenti poco eleganti.

Si badi che non c'è alcun giudizio di valore (sono anche io "un corpo al sole" in questi giorni), ma solo una mera constatazione di come il luogo influenzi il comportamento animale.

La montagna, invece, è l'opposto.
Il turista che preferisce la montagna, già nello scegliere la località, si concede lunghi momenti di riflessione, perché non vuole solo un luogo, cerca un'atmosfera. Quell'atmosfera che gli consentirà di elevarsi, di riposarsi ma insieme temprarsi, nello spirito e nel corpo.

Il villeggiante montano è elegante, qualsiasi cosa faccia. 
Quando intraprende un impervio sentiero alpino ha gli occhi fissi alla meta, ma è capace di godersi il percorso. Suda anche lui, ma non puzza. Ha uno scopo quel suo sudare, è la nobile fatica dell'ascesa.

Quando l'escursionista si concede un bagno in un limpido ruscello alpino, ne esce ristorato e pulito. La fredda acqua gli tonifica i muscoli e gli dona nuovo vigore per proseguire nella salita.
Quando mangia, il turista montano, lo fa con eleganza, parsimonia. Introduce le calorie necessarie al corpo, non una di più, perché ha dovuto scegliere con cura i pesi da mettere nel suo zaino.

Esattamente l'opposto di quanto accade a mare.
Quando mangia il copro al sole introduce molte più calorie di quelle che ha bruciato stando in ammollo nell'acqua, e lo fa con foga, quasi avesse paura di non riuscire a finire tutte le lasagne e panini e pizzette e bombe alla crema e gelati stivati nel suo frigorifero portatile o comperati al bar del lido.
Il mangiare per il villeggiante marino è l'attività principale, che ha una fitta pianificazione oraria: colazione, spuntino di metà mattina, pranzo, merenda, aperitivo, cena, dopocena, spaghettata di mezzanotte.

Per il villeggiante montano, invece, mangiare è un'attività marginale. Deve tener presenti gli orari dell'alba e del tramonto, i tempi di salita e discesa da una cima, deve evitare acquazzoni e subitanei cambiamenti del tempo, per cui il magiare diventa l'unica attività che non occorre pianificare, ma che esegue nei ritagli di tempo, magari in una breve pausa davanti un paesaggio mozzafiato. E si ferma per il paesaggio, non per mangiare.
Sarà anche per questo che il turista montano magia lentamente, con gusto ma senza foga, con una certa eleganza nei gesti e con tanta profondità nello sguardo volto al cielo e alle cime.

Guardate, invece, il bagnante mangiare. Osservatelo davvero, con l'occhio critico del documentarista che sta filmando una specie animale per scorgerne i tratti distintivi, guardatelo come se doveste scrivere un trattato di etologia.
Scoprirete che ha uno sguardo selvaggio nell'addentare quel panino farcito di salsiccia e formaggio o quel tramezzino al tonno. Lo vedrete in crisi se non riesce ad aprire la bottiglia di birra con l'accendino ed imprecare se gli cade una fetta di anguria nella sabbia, pur avendone diversi chili a disposizione nella borsa termica.
A sera, nel ristorante dell'hotel o in una trattoria sul lungomare, conserva quella fame insaziabile, caratteristica solo di chi oziato per tutta la giornata. Beve vino bianco ghiacciato, per questo ne beve tanto e non ne apprezza il gusto, suda mentre mangia anche se c'è l'aria condizionata ed è sempre pronto a criticare il piatto se le porzioni non sono generose.
Il villeggiante marino continua a bere cocktail ghiacciati per tutta la sera e gran parte della notte, per risultare il più simpatico della compagnia ed evitare silenzi imbarazzanti, che rivelerebbero il vuoto assoluto che ha generato la giornata a mare.

Il turista montano, invece, è controllato e distinto in ogni gesto del suo desinare. Anche a pranzo mangia "una colazione" al sacco, non un panino superfarcito. E la sera conserva il senso per il cibo che ha sperimentato nelle escursioni della giornata. Ne apprezza il potere ristoratore, dosa i bocconi, mangia con eleganza e si gode la stanchezza dei muscoli insieme al calore di un calice di vino rosso.
Se beve dopo cena una grappa o un amaro, è per ritrovarsi con se stesso ancora più in profondità, non per dire spiritosaggini ai compagni di tavola.
Il turista montano non teme il silenzio, anzi lo cerca.

Il turista marino si sveglia tardi col mal di testa per le orgie di cibo e futile socialità mondana della notte prima, sconta in spiaggia tale stanchezza cronica e cerca nel sole e nel chiacchiericcio una forma di consolazione al vuoto che sente dentro.

Il turista montano si sveglia presto e l'alba lo coglie già in marcia sui sentieri più belli. È riposato e sereno e cerca nella fatica dell'ascesa e nella bellezza dei paesaggi quel barlume di infinito che sa di avere dentro.

In definitiva in montagna cerchi (e spesso trovi) te stesso. Al mare cerchi gli altri per fuggire da te stesso. Ne consegue un'umanità nobile e pulita nel primo caso, corrotta e sgraziata nel secondo.

Sarà per questa distanza abissale tra mare e montagna che preferisco la seconda. Eppure, da tre anni, passo più giorni a mare che in montagna. Non per mia scelta, beninteso, è che dicono faccia bene ai bambini. E con due piccole da crescere, per giunta sempre col raffreddore, mi sento in dovere di essere anche io "un corpo al sole".
Ma, da esperto di marketing, nutro il sospetto che la storia dello iodio sia solo una bugia del mercato, per affollare le spiagge e tenere silenti e protette le cime delle montagne.


1 agosto 2013

Perché non esiste il bottone "Non mi piace" su Facebook. E perché Zuckerberg sbaglia a non volerlo mettere.


Quella che segue è la traduzione italiana di un post che avevo scritto 4 mesi fa per il blog di Cubeyou (perennemente in cantiere). Visto che è un tema che sta tornando alla ribalta (perché pare che Zuckerberg si stia ricredendo), ho pensato di pubblicare il post; così, quando in Facebook troverete il pulsante Dislike, saprete il perché. 

La storia del pulsante “Non mi piace” su Facebook è lunga e piena di false notizie, campagne virali, spam e strategie di marketing di dubbio valore.
Partiamo dal fatto che il pulsante, ad oggi, non esiste e che in nessun momento della storia di Facebook sia mai apparso un restyling che lo prevedesse, nemmeno per una fase di test.
Tuttavia è certo che se ne sia parlato nei quartieri generali di Facebook, perché è una richiesta che milioni di utenti hanno avanzato al Social Network di Mark Zuckerberg. Non si contano infatti le pagine, i gruppi, le comunità e i profili creati allo scopo, proprio sul social network più utilizzato di sempre. Ecco qualche esempio di nomi eloquenti:

  • Dislike
  • Dislike Button
  • We need a "dislike" button on Facebook 
  • Hello Mr.Zuckerberg, we need a "Dislike"…
  • We Want a Dislike Option
  • We Want A Dislike Button

Si tratta forse della modifica alla piattaforma più richiesta in assoluto, quella che ha trovato maggior consenso e maggiore diffusione su siti web, blog e forum di discussione.
Ma allora perché il buon Mark non l’ha mai ascoltata?


In fondo ci sono esempi di canali dove questa valutazione negativa esiste da molto tempo e non ha mai generato problemi. Si veda YouTube, dove il pulsante “Non mi piace” è parte integrante dell’algoritmo che genera contenuti pertinenti e rilevanti rispetto alle ricerche per parole chiave fatte dagli utenti, sia dentro che fuori dalla piattaforma di broadcasting.

Eppure Mark Faccia D’Angelo sembra convinto che gli utenti di Facebook non saprebbero gestire un pulsante di “disapprovazione”, col rischio di generare negatività su negatività all'interno della sua creatura.
Potendo distribuire solo I-Like, invece, gli utenti Facebook sono in qualche modo costretti ad adottare sulla piattaforma un atteggiamento buonista, nel quale prevale di gran lunga l’atteggiamento “pro” rispetto a quello “contro”.
E questa tipologia di interazione è quella che i brand, le aziende e i grandi gruppi che investono in advertising su Facebook preferiscono, poiché sarebbe spiacevole trovarsi una valanga di disapprovazione verso un proprio prodotto/servizio/iniziativa.


Ma Facebook in questo sbaglia, almeno per quattro motivi. Vediamoli.
  1. Per prima cosa bisogna tener presente che l’uomo “è programmato” per funzionare con modalità binaria: Positivo/negativo, Felice/Triste, Riposato/Stanco, A Favore/Contrario, Piace/Non piace. Con mille sfumature fra i due opposti, ma pur sempre con entrambe le “modalità” sempre presenti nella propria vita (e addirittura coesistenti nell'arco stesso di una giornata).
    Per questa ragione antropologica gli utenti aggirano sistematicamente le limitazioni del Social Network e trovano mille vie per manifestare il proprio dissenso, spesso peggiori del sintetico “I Dislike”. 
    Ecco quindi che, anche se non è possibile fare un “Non mi piace” alla pagina di Berlusconi, tanto per fare un esempio, nascono centinaia di pagine che hanno come solo scopo la manifestazione del dissenso e della disapprovazione verso questo personaggio pubblico italiano.
    Ed anche se spesso queste pagine hanno un numero di fan generalmente inferiore a quello del brand o del personaggio di cui parlano male (dai 10 ai 100.000 Mi piace), la somma dei diversi fan sulle diverse pagine supera di gran lunga il totale degli I-Like che può avere la pagina ufficiale del personaggio pubblico. Un sorta di teoria della Coda Lunga, applicata al Social Media Marketing. (NdR: chiedete ad un SEO specialist la spiegazione del concetto di Long Tail)
  2. Veniamo quindi al secondo motivo, direttamente collegato al primo, per cui Facebook sbaglia a non permettere il “Dislike”.
    Questi focolai di discussione per parlare male di qualcosa o qualcuno sono l’incubo di ogni Social Media Manager, perché è praticamente impossibile riuscire ad avere una visione d’insieme di cosa la gente pensa del brand di cui si sta gestendo la comunicazione online.
    E quindi la piattaforma è comunque vista da chi si occupa di Social Media Marketing come un luogo problematico, dove non è possibile seguire le conversazioni più negative sul brand, proprio perché avvengono su pagine o gruppi o comunità non gestiti dal brand stesso.
  3. Il terzo aspetto è la diretta conseguenza degli altri due: se il brand non può ascoltare il dissenso, se non può instaurare conversazioni con gli utenti, muore il marketing 2.0, crolla ogni possibilità di miglioramento del prodotto/servizio offerto sulla base gli input degli utenti.
    E ci perdono tutti, brand e utenti. Il primo perde l’opportunità di migliorare e continuare a vendere o vendere di più, i secondi non vedranno mai realizzate le loro richieste.
  4. C’è una quarta motivazione per cui Mark Zuckerberg dovrebbe introdurre il pulsante “I Dislike”, ed una ragione che i Marketing Manager stanno sempre più prendendo in considerazione. I dati di Facebook sono estremamente “sporchi”. Non solo non è possibile calcolare con precisione il dissenso attorno ad un brand/servizio/personaggio, ma è anche impossibile stimarne il reale apprezzamento.
    Ci sono studi nei quali si scredita il valore dell’I-Like, dimostrando che una grande percentuale di utenti ha un atteggiamento superficiale nell'attribuzione di questo tipo di social reference (si legga, ad esempio, “L’I-Like Facile in Facebook”).
    L’unico sistema statisticamente accettabile per depurare questa percentuale sarebbe l’utilizzo dei “Non mi piace” come fattore correttivo, per arrivare ad ottenere un Valore di Apprezzamento Netto (“N° Mi piace” – “N° Non mi piace”= VAN). Supponendo infatti che gli utenti che attribuiscono superficialmente gli I-Like siano simili come cluster a quelli che attribuiranno i Dislike, si arriverà ad ottenere un dato significato ed utilizzabile per gli scopi di social analytics, grazie all’annullamento del rumore di fondo dato da questi cluster socio-comportamentali fuori controllo.

Quindi, Mark, ascolta la voce del “tuo” popolo: fagli dire quello che vuole!
... Te ne saranno grati non solo gli utenti di Facebook, ma anche tutti i Social Data Analysts, i Social Media Specialists e, soprattutto, i Marketing Manager che amano i “dati puliti” e significativi.