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23 gennaio 2012

Breve storia economica d'Italia

Agli albori di questo 2012, pieno di dissidi sociali e difficoltà economiche per il nostro Paese, ho pensato di fare un regalo alla memoria collettiva, scrivendo questo post dal titolo ambizioso: "Breve storia economica d'Italia".

Questo articolo era in programma da più di un anno, perché cercavo il tempo per approfondire molti passaggi della storia economica d'Italia, ma non posso aspettare oltre; mi accontenterò di focalizzarmi su alcuni aspetti-chiave. Provo una sensazione di "urgenza" che mi spinge a mettere sul tavolo alcuni argomenti che, se conosciuti, permettono di guardare con più lucidità al presente. Le notizie di questi giorni sull'economia mondiale, il debito pubblico italiano fuori controllo, lo scontro dei sindacati (prima fra loro, poi con la FIAT e infine con l'attuale Governo Monti), insomma "l'attualità" ha preteso che facessi uno sforzo di sintesi per condividere un po' di "memoria storica", che è alla base della consapevolezza.

Senza pretesa di essere esaustivo, né che queste righe arrivino ad essere lette da chi manovra l'economia del nostro Paese, ma con la speranza che chi un domani darà il proprio contributo per la cosa pubblica, possa incappare in queste pagine, magari cercando proprio "storia economica d'Italia".
Per ovvie ragioni ripercorrerò gli eventi con livelli di dettaglio diversi, una sorta di scala logaritmica che privilegi gli ultimi decenni della nostra storia economica.

Partiamo da lontano.
Fin dal Paleolitico l'Italia, che all'epoca non era Italia, ma un rigoglioso pezzo di terra circondato dal mare, è sempre stata un territorio popolato, grazie al clima mite che lo caratterizzava.
Sempre il mare poi la favorisce quando nascono le prime grandi civiltà del Mediterraneo: dall'VIII secolo a.C., la penisola vede avvicendarsi Fenici, Cartaginesi e soprattutto Greci, che portano cultura, civilizzazione e sopratutto il commercio: ciò getta le basi per un'economia più avanzata, che fa uso della moneta e supera i limiti del baratto.
Il sistema monetario greco viene adottato anche dalla nascente potenza romana, che introduce elementi innovativi per lo sviluppo della propria ricchezza:
- la forza del diritto
- la forza della spada
L'unione di questi due fattori favorisce una colonizzazione di vasti territori e lo sviluppo del commercio, che comportano abbondanza di materie prime, commistione fra culture e confini più sicuri.
Con l'arrivo di Roma e dell'Impero Romano, l'economia della penisola italica diventa la più ricca ed avanzata del mondo. Potremmo paragonarla a quella degli Stati Uniti dei tempi d'oro, soprattutto per quanto riguarda "l'attitudine colonialista".

Correndo su secoli e secoli di vicissitudini italiche, quello che mi interessa sottolineare è che da sempre, fin dalla nascita della civiltà, la nostra Penisola ha avuto un'economia ricca, grazie al clima che favoriva agricoltura e allevamento, e, soprattutto, grazie alla posizione centrale negli scambi commerciali con i popoli del Mediterraneo.

Facciamo un salto al 1200 e troviamo un'Italia sempre più ricca, con le Repubbliche Marinare al centro del commercio internazionale. E Venezia che, fra tutte, eccelle nel dominio dei mari grazie alla sua capacità di costruire navi veloci e adatte sia alla guerra che al commercio.

Le galee veneziane, spinte dal remare cadenzato di decine e a volte centinaia di vogatori, erano considerate il mezzo migliore per affrontare il mare.
L'Arsenale di Venezia, dove si arrivavano a costruire anche 25 navi in un mese, era il più grande complesso produttivo del Medioevo e, in un certo qual modo, la prima vera grande fabbrica moderna: vi lavoravano migliaia di uomini, con compiti specifici, e le galee venivano costruite "in serie", anticipando i metodi della moderna catena di montaggio.

Ma...
Un bel giorno di tanti, tanti anni fa, un giovane, che aveva a lungo viaggiato nel nord Europa, e aveva studiato in Inghilterra e Olanda nuovi modi di costruire le navi, fece ritorno nella sua città natia, Venezia, e fece di tutto per essere ammesso al cospetto del Doge e del Maggior Consiglio per proporre di innovare il loro modo di costruire le navi.
Il giovane narrò di come le navi della Lega anseatica riuscissero a sfruttare il vento come forma esclusiva di propulsione, di come riuscissero a disporre di un ampio vano di carico per il trasporto delle merci, senza necessità di avere centinaia di galeotti ai remi.
I vecchi "saggi" del Maggior Consiglio risero alla fine dell'accorato racconto del giovane, facendosi scherno di lui e delle sue proposte. Cosa aveva da insegnare un giovane ai vecchi del Consilium Sapientis, che guadagnavano da anni immense ricchezze grazie alle galee costruite e armate nell'Arsenale veneziano? Loro erano mercanti avidi e scaltri, che non accettavano alcun suggerimento da chi aveva molti meno anni ed esperienza di loro.

E la storia non fece sconti alla loro mancanza di immaginazione.
Tardivi furono i tentativi di montare sulle galee alcuni alberi maestri con vela latina, che riuscivano a dare un contributo alla spinta delle galee solo nella navigazione con vento in poppa. Si sarebbe dovuto cambiare drasticamente il modo di costruire le navi, e l'Arsenale di Venezia, per colpa dei vecchi saggi del Maggior Consiglio, non lo fece.
Nel XV secolo, ormai, i galeoni degli stati più lungimiranti dominavano i mari e solcavano gli oceani, spinti da un vento benevolo che, ahimè, segnò la fine della Serenissima.

Nel mentre, qualche centinaio di chilometri più a sud, nel Regno di Napoli (poi unificato nel Regno delle Due Sicilie), grazie ai Borboni si viveva un periodo di sviluppo culturale ed economico, con rilevanti iniziative sociali ed industriali, che portavano grandi benefici alle popolazioni locali.
Un esempio su tutti fu, nel XVII secolo, la creazione del Setificio di San Leucio a Caserta, che produceva filati in seta apprezzati in tutto il mondo. Potremmo immaginarlo come un complesso e autonomo distretto industriale, dove erano vigenti leggi speciali davvero illuminate per l'epoca (scompare la differenza tra uomini e donne nelle successioni ereditarie, il guadagno è proporzionale al merito, parte dei compensi va versato alla Cassa della Carità destinata agli invalidi, vecchi e malati, l'istruzione è obbligatoria dai sei anni in poi, ecc.).

Ma...
Un giovane, che aveva viaggiato nel resto d'Europa e si era spinto perfino nel Nuovo Mondo, tornò dalla sua famiglia che non si era mai allontanata dal Borgo di San Leucio, raccontando di una fibra per filati, molto più resistente e facile da lavorare della seta. Era il cotone.
Grazie all'invenzione della "Cotton Gin", la sgranatrice di cotone, in America i tessuti in cotone erano ormai molto diffusi e apprezzati per la loro resistenza, leggerezza ed economicità.
Il vecchio capofamiglia, più per amore del giovane che per reale comprensione dell'importanza delle sue idee, riuscì ad ottenere un'udienza presso il Consiglio del Setificio, per permettere al figlio di esporre le sue proposte innovative.
Ma i vecchi del Consiglio si urtarono alla proposta del giovane di affiancare alla lavorazione della seta anche quella del cotone e lo cacciarono con ignominia dal Borgo. Come poteva il volgare cotone rivaleggiare con la preziosa seta?? E come, un membro della comunità, poteva pensare di cambiare le tradizioni dell'opificio reale?

E la storia non fece sconti alla loro chiusura mentale.
Il cotone si diffuse in tutta Europa, la seta prodotta a basso costo in Cina e Giappone e trasportata con i velieri inglesi, olandesi, portoghesi e spagnoli invase i mercati, facendo crollare la richiesta della seta di San Leucio.

Facciamo ora un salto agli inizi del '900 e troviamo un'Italia che, da poco unificata politicamente, lavora per sanare le differenze sociali ed economiche fra le sue regioni.
Inizia a dotarsi di un tessuto industriale, ma viene trascinata da un folle dittatore in dispendiosi sogni coloniali, fallimentari esperienze autarchiche, disastrose guerre. Il ventennio fascista sconvolge l'Italia non solo economicamente, ma socialmente, mandando a morire sul fronte una generazione di giovani italiani che avrebbero potuto costruire un Paese diverso.

Ma la forza dell'Italia è tanta e tale che, dal dopoguerra in poi, forte di una Costituzione illuminata, rinasce dalle sue ceneri e si riconquista un posto fra le potenze economiche mondiali.

La classe politica, però, non si dimostra poi così illuminata.
Il partito dominante, la Democrazia Cristiana, per mantenere il potere, oltre ad accordi con la Mafia (che per definizione è un danno economico per il Paese), fa crescere la spesa sociale a scapito delle future generazioni, iniziando a far spendere allo Stato italiano molto più di quello che incassa. Si forma così il debito pubblico, che ha in Andreotti (e i suoi sette governi) il suo principale artefice.

Tra le trovate "geniali" di allora, c'è l'introduzione della Indennità di contingenza (conosciuta dai più come "scala mobile"), negoziata della CGIL: un meccanismo volto ad indicizzare automaticamente i salari all'inflazione e all'aumento del costo della vita. Peccato che ciò fa innescare un circolo vizioso, una continua rincorsa salari-inflazione, che fa schizzare quest'ultima a livelli insostenibili (con ulteriore danno per le casse dello Stato).

Ed anche se alcuni giovani economisti avvertono del pericolo, sono anni difficili: le Brigate Rosse seminano terrore, i sindacati sono sempre sul piede di guerra, il Vaticano preme per avere la pace sociale nel Paese, e nessuno se la sente di abolirla.
Lo farà poi, troppo tardi, Amato, nel 1992.
Nemmeno nella "pausa socialista" (fra i governi democristiani) del primo e secondo governo Craxi, l'Italia ce la fa a fermare l'ascesa del debito pubblico, a causa di una classe politica impegnata a riempirsi le tasche e a costruirsi una serie di privilegi che le varranno, ai giorni nostri, l'appellativo di Casta.

La cosa interessante è che dal 1990 lo Stato italiano va in pareggio prima del pagamento degli interessi (spende quanto incassa), ma deve pagare gli interessi sul debito accumulato in precedenza e quindi emette nuovo debito.

Con i governi di Sinistra della "Seconda Repubblica", si inizia a ripianare il debito e per la prima volta dal dopoguerra il rapporto fra debito e PIL inizia a decrescere. Ma poi arriva Berlusconi e la corsa all'indebitamento riparte. Arrivando all'incredibile cifra, ad oggi, di 1.922 miliardi di euro di debito.

(Per chi vuole avere un dato aggiornato sulla crescita del nostro debito pubblico, ed ha abbastanza coraggio da non abbattersi nel vedere la crescita istantanea dello stesso, vi rimando al sito "Italia Ora")


Qual è, dunque, la morale di questa breve storia economica d'Italia? È che ci sono dei colpevoli.
Non è che il peso sulle spalle nostre e dei nostri figli è un fatto ineluttabile, che dobbiamo accettare come una sventura caduta dal cielo. C'è stato un momento, anzi, tanti momenti, in cui qualcuno poteva scegliere, e non l'ha fatto. O l'ha fatto male.
Ci sono dei colpevoli che hanno un nome e cognome, Benito Mussolini, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Silvio Berlusconi. E ci sono gruppi  o "categorie" di colpevoli, come i sindacati, la Chiesa Cattolica, le Brigate Rosse.

Ma c'è un colpevole per eccellenza nella nostra storia economica. E quel colpevole è il Vecchio che dice di "no" al Giovane.

6 gennaio 2012

PIL: schiavi di un numero... sbagliato

«Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell'indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il PIL comprende l'inquinamento dell'aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari. Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell'equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.» 

(Robert Kennedy - dal discorso tenuto il 18 marzo 1968 alla Kansas University)