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10 ottobre 2020

Il Dilemma Sociale: seguire o non seguire? Follow or Unfollow? E soprattutto: basta dire "io l'avevo detto"?

Un caro amico, che sa qual è il mio lavoro, mi ha suggerito di vedere il documentario "The Social Dilemma" su Netflix.


L'ho visto, e non ci ho trovato nulla che già non sapessi. Anzi, proprio la conoscenza di quegli algoritmi incriminati di cui si parla nel documentario è alla base di gran parte del mio successo professionale.

Però la visione del film, che consiglio a tutti, ha prodotto in me un altro tipo di "dilemma".
Usare una tecnologia sbagliata, avendo il controllo del fine ultimo, è giusto? Oppure, proprio perché si riconosce che il mezzo è intrinsecamente sbagliato, bisogna rinunciarvi?

SEGUIRE O NON SEGUIRE? 

Follow
e Unfollow sono termini che ormai attribuiamo non a dinamiche sociali, ma ad azioni progettate per i Social Network. Eppure, è tutto lì il perimetro della scelta dell'individuo: schierarsi.

Io ho creduto, per anni, di essermi sufficientemente "schierato".

Nel lontano 2011 teorizzavo l'influenza dei progressi del Web sulla società civile:
"Cos'è il Web 3.0"

Nel 2012 scrivevo che la perdita dell'oggettività nei risultati di ricerca era un problema:
"Confessioni di un SEO Specialist pentito"

Nel 2013 scrivevo che il monopolista delle ricerche sul Web era poco trasparente e perseguiva, con le proprie politiche aziendali, meramente il profitto:
"Google, don't be evil... togli il Not Provided e ridacci la Long Tail"

Nel 2014 scrivevo che non si possono lasciare scelte di carattere globale ai tecnocrati, ma ci vogliono umanisti e filosofi per indirizzare il progresso tecnologico:
"I nuovi domini, la vecchia SEO... e perché ci vorrebbero dei filosofi che si occupassero di standard ed Information Technology"

Non mi sono limitato a scrivere su questo blog. In un tavolo di lavoro alla Leopolda 5, proposi all'allora Sottosegretario di Stato del Ministero dello Sviluppo Economico con delega alle Comunicazioni nel governo Renzi, Antonello Giacomelli, di fare un intervento legislativo per le scuole dell'obbligo sulla "formazione all'uso del Web e dei Social Media". L'obiettivo era formare le giovani generazioni sui funzionamenti degli algoritmi dei colossi dell'economia digitale, spiegare che non restituiscono una verità oggettiva, ma solo quello che è funzionale ai loro obiettivi di business.

Un tempo ci insegnavano a sfogliare l'enciclopedia, ora nessuno spiega ai giovani che fare una ricerca sul Web o sui Social Media segue logiche completamente diverse dalla restituzione di risultati che hanno a che fare con "la verità".

Sono tutti temi che troverete nel recente documentario di Netflix. 

E, anche se ho sollevato tali problemi etici con molti anni di anticipo rispetto alla "sensibilità pubblica", non mi sento esente da colpe: li ho denunciati, ma ho continuato ad usare la loro tecnologia, tecnologia che ha prodotto "mostri", come Trump e i terrapiattisti.
Certo, con fini opposti, spesso nobili, o comunque eticamente affini al mio sentire. Ma siamo ancora una volta di fronte al dilemma: la mia etica può decidere cosa è giusto o sbagliato per altri individui, per altre sensibilità? Oppure la conoscenza di certi strumenti tecnologici mi consente di manipolarli?
Il problema è, oggi più che mai, che il mezzo che veicola la comunicazione non è neutro.

La mia più grande frustrazione è che non mi basta più dire "io l'avevo detto".
Vorrei aver saputo scegliere una terza via.

20 agosto 2020

Droga, Drughi e Draghi

Non bisogna essere un drago per capire e sottoscrivere quello che ha detto Mario Draghi al meeting di Comunione e Liberazione di Rimini il 18.08.2020. Nella sostanza un discorso bello perché vero, forse anche sentito. Ma tardivo e quantomeno inutile, ora come ora.


Quello che mi sorprende è il clamore che il suo discorso ha avuto. Significa che in Italia la stragrande maggioranza della popolazione, giornalisti inclusi, è analfabeta rispetto a nozioni basiche di Economia Politica.

Viviamo in un Paese di Drughi (non nell'accezione di "tifosi della Juventus", ma di "nullafacenti fancazzisti" seguaci dello stile di vita del Grande Lebowski). Sono tutti pronti a darsi da fare per riscattare la lesa maestà di un tappeto, ma non fanno nulla per preservare le dinamiche che consentono la sopravvivenza socio-economica di uno Stato.

Di quale droga si fanno i nostri politici per emettere debito senza capire cosa significa sul lungo periodo??

Forse della droga del "consenso", quella roba che gli consentirà di essere rieletti alle prossime elezioni.

Permettetemi di spiegarvi quello che ti insegnano nelle primissime lezioni di Economia Politica: fare spesa pubblica emettendo debito è giusto e eticamente accettabile solo ed esclusivamente se quella spesa ha ricadute dirette sulle generazioni che ripagheranno il debito.

Treno a levitazione magnetica

Facciamo un esempio spicciolo, all'inverso: devo costruire una rete ferroviaria a levitazione magnetica ad altissima velocità e grande risparmio energetico, che richiederà 20-30 anni per essere attiva e funzionante; se la costruissi con i soldi delle tasse della popolazione lavoratrice di oggi, che probabilmente non la userà, o la userà per pochi anni, sarebbe ingiusto. In tal caso è giusto emettere debito pubblico, che sarà ripagato da chi beneficerà della lungimiranza di questi investimenti in infrastrutture.

Ma se si emette debito pubblico per pagare le pensioni a generazioni di privilegiati, se si emette debito pubblico per pagare i sussidi ai furbetti del cartellino e del Parlamento, che giustizia c'è in tale debito??

Provvedimenti come "Quota 100", esempio lampante di spesa improduttiva finanziata con emissione di debito, dovrebbero essere illegali in un Paese civile. 

Ecco, Draghi non ha fatto nient'altro che dire una serie di ovvietà. Sono sconvolto della risonanza che hanno avuto le sue parole, perché significa che pochi in questo ignorantissimo Paese conoscono i principi etici che ci sono dietro l'emissione di debito pubblico.
Se si lodano le sue parole è perché fino ad ora si è ricorso al debito con leggerezza e ingiustizia di fondo.

Ho già spiegato il ruolo dei giovani in un post metaforico che ripercorreva la storia economica dell'Italia.  

Essere giovani non può essere, oggi più che mai, solo una questione anagrafica: è una questione di parte. Chiunque può scegliere di stare dalla parte delle future generazioni, scegliendo, in politica ed economia, chi guarda sul lungo periodo e agisce non per tornaconto elettorale, ma secondo ideali di giustizia ed equità generazionale. 

26 aprile 2020

La Trincea Infinita


La sfida di questa quarantena l’ho persa. La consapevolezza di ciò ha un sapore amaro.

Dopo “appena” 38 anni di vita, mi sono fatto un’idea del perché sono venuto al mondo. Tra studi di filosofia, religione, Cabala, esoterismo, una qualche idea del senso della Vita me lo sono fatto: siamo qui a giocare un complesso gioco, nel quale siamo chiamati ad esprimere la versione migliore di noi.
Che è il modo di tornare all’Uno dal quale proveniamo, sentendoci parte, “essendo” parte del Tutto che ha giocato al gioco della Separazione, affinché potesse meritarsi la ricompensa dell’essere Uno. Dell’Essere.

Le difficoltà esterne, come questa emergenza da Coronavirus, accelerano le dinamiche della sfida e possono portarci agli estremi: diventare migliori o peggiori.

Ecco, io dopo più di 2 mesi di isolamento e 38 anni di gioco nel gioco della Vita, mi sono reso conto di aver perso. O di stare perdendo, se vogliamo essere ottimisti e sperare in un goal nei minuti di recupero.

Il motivo? Sinceramente non lo so.
Sicuramente n
on basta conoscere, o credere di conoscere, le regole del gioco, per andare a meta; serve allenamento, focus sull’obiettivo, determinazione e, soprattutto, essere disposti a perdere tutto.

Questa quarantena mi ha posto di fronte a scelte che mi si ripresentano da anni: quanto tempo dedicare al lavoro, quanto alla famiglia, per cosa lottare, cosa lasciar perdere, dove essere determinato, dove essere flessibile, a cosa rinunciare, a cosa puntare.
Noi scegliamo ogni singolo istante della nostra vita, e le scelte sono alla base del gioco.

In questa quarantena ho scelto di lavorare mediamente 14 ore al giorno (2-3 ore in più di quanto facevo prima), pur avendo 3 figlie a casa cui badare.
Ho scelto di dare loro l’attenzione e il tempo che si dà ad una call sbrigativa e sgradita, che ti capita in mezzo ad un serrato piano di lavori.
Ho scelto di ritirarmi “in trincea”, come ormai chiamo il mio angolo computer sul soppalco di casa, come gesto di resistenza estrema all’emergenza che ci vuole proni.
Ho scelto di resistere a modo mio, tuffandomi nel lavoro e dedicandomi ancora di più agli obiettivi dei miei clienti. Ma ogni notte fatico ad addormentarmi, nonostante l’ora tarda.

Ho scelto di lavorare e non fatturare, per essere solidale con chi è fermo per decreto. Ma ogni istante calcolo le probabilità di insoluti futuri e tremo all’idea che il mio ipotetico altruismo non sia mai riconosciuto.
Ho scelto, e scelgo ancora, di irritarmi se la casa non è gestita alla perfezione, se le bambine costruiscono barricate per ritagliarsi propri spazi franchi, che intralciano il mio prendermi cura di loro.
Ho scelto di non leggere, cosa che da sempre amo fare, perché mi sembra un lusso che non posso permettermi, quando c’è così tanto da fare.
Ho scelto di considerare mia moglie un nemico, un “altro da me” che non mi capisce e che non comprende l’importanza delle mie scelte. Ho scelto di vivere una vita parallela, in trincea, mentre lei combatte in campo aperto.
Ho scelto, e scelgo ancora, l’opposto di ciò in cui credo. E non mi capacito del perché.

Talvolta trovo qualche scusante, ma non ci credo davvero.
Una di queste scuse è che io sia una vittima, quando non ho saputo essere un eroe.


Ho visto un film, nei frangenti di tempo tra la fine del lavoro a computer e l’andata a letto, che ho trovato toccante per molti versi. Il film si chiama “La Trincea Infinita”, ed è ambientato ai tempi della guerra civile spagnola (1936-1939), che si trascina fino all’amnistia tre decenni dopo. Un film che, in questi tempi di quarantena, qualsiasi persona sposata, dotata di senso critico, dovrebbe vedere.
C’è il senso della privazione, c’è il senso dell’amore. E anche tutte le sfumature intermedie.

Mi è rimasto impresso un dialogo immaginario, avvenuto durante un sogno del protagonista (Higinio Blanco), tra lui e un soldato da egli ucciso:
Soldato: "Sei molto coraggioso. Tanto coraggioso da non esserti neanche tolto la vita. Credo tu sia stanco di sentirtelo dire, ma poche persone avrebbero sopportato questa cosa con la tua integrità."
Higinio: "Grazie."
Soldato: "Forse la paura che hai avuto non ti farà passare da eroe, ma ciò non toglie che tu sia stato una vittima."
Higinio, fra le lacrime: "Grazie."

Ecco, da perdente, da persona che non ha saputo perdonare, che non ha saputo scegliere la Luce, che non ha saputo essere migliore, rimane la scusante che forse la sfida che mi si è parata di fronte sia stata davvero troppo ardua per le mie forze.