Blog "di viaggio" di Luca Martino, dove Filosofia, Politica, Economia, Marketing, Web e SEO sono di strada.
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11 agosto 2015
Google diventa Alphabet. Ma cosa si nasconde nel cambio di nome?
Alphabet Inc. sarà quindi una conglomerata che possiederà al 100% le attività dell'attuale Google e che probabilmente diversificherà sempre più il proprio business, continuando ad investire in progetti innovativi, ma tenendoli finanziariamente ben distinti dal core business, che ad oggi è l'unico a generare profitto: la pubblicità sul motore di ricerca. Google, per l'appunto.
Forse la manovra serve principalmente agli azionisti, per avere una visione più chiara di quali progetti di ricerca, fra i mille intrapresi, possono diventare società distinte, magari da quotare in borsa separatamente, pur se partecipate in quota maggioritaria da Alphabet.
O forse nasconde un intento più ambizioso... Insomma, ci avviamo verso quel futuro, ipotizzato in tanti libri e film di fantascienza, in cui c'è una Super Holding che possiede qualsiasi attività produttiva del mondo.
Ma non è su questo che mi voglio soffermare, sono in vena di riflessioni più contingenti, più legate al mio lavoro di consulente in ambito Web e SEO.
La domanda che mi pongo ogni volta che leggo una notizia o un rumor su Google, da oltre 10 anni, è: cosa cambia nelle SERP? cosa posso imparare da questa vicenda? c'è qualche deduzione che posso fare per scoprire un trend o per confermare un'ipotesi di reverse engineering?
In questo caso, a prima vista, sembrerebbe non esserci alcun collegamento fra il re-naming e l'algoritmo del motore di ricerca. Ma non me la sento di liquidare sbrigativamente la faccenda; ho già ampiamente scritto sull'importanza del dare i nomi alle cose e, manco a farlo apposta, era proprio in occasione di un naming annunciato da Google ("Perché Android 4.4 KitKat è uno Scherzo Infinito. E perché i nomi sono una cosa seria.").
Proprio per questa ragione una riflessione la farei sul significato del nome ALPHABET.
Larry Page ha scritto, nella comunicazione di lancio della nuova società (che potete leggere sul significativo link abc.xyz ): «Ci è piaciuto il nome "Alfabeto", perché indica una raccolta di lettere che rappresentano il linguaggio, una delle innovazioni più importanti dell'umanità, ed è il cuore dell'indicizzazione di Google!».
Questo accenno al linguaggio come "innovazione dell'umanità" lo ritengo significativo. Passare dalle lettere alle parole e da queste al linguaggio, significa fare un salto enorme, significa passare dal segno alla rappresentazione, dalle parole al significato delle stesse. Ecco, questo è il trend che credo il motore di ricerca prenderà: sempre più semantico, sempre meno ancorato alle parole chiave.
Il linguaggio umano è un codice complesso di rappresentazione della realtà. È addirittura alla base del modo in cui pensiamo (cit. Wilhelm von Humboldt).
Pensare al linguaggio significa andare oltre la parola. Io credo che il nome Alphabet, in ultima analisi, indichi il rafforzamento di un cambiamento già in atto sul primo motore di ricerca del mondo: un algoritmo capace di lavorare sul significato delle parole, magari collegato ad una forma di Intelligenza Artificiale, in grado di dare risposte dirette alle domande che milioni di utenti ogni giorno pongono online.
Credo sia utile aggiungere, a supporto di questa intuizione, che Google-Alphabet è l'unica azienda al mondo che potrebbe davvero creare un'Intelligenza Artificiale (idea base del bel film Ex Machina del geniale Alex Garland). E lo può fare non perché possiede DeepMind (azienda britannica che si occupa di AI, acquistata nel 2014 per oltre 400 milioni di dollari), ma perché sa "come" pensano miliardi di uomini e donne. Perché sa come parlano.
14 luglio 2015
Nessun uomo è un'Isola
È un verso bellissimo, una riflessione importante, che dà il titolo al romanzo di Hemingway e ne costituisce, in ultima analisi, la chiave interpretativa.
Fatto sta che molti politici ed economisti in Europa non hanno ancora imparato questa lezione.
Nessun uomo è un'Isola,
intero in se stesso.
Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra.
Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare,
l'Europa ne è diminuita,
come se un Promontorio fosse stato al suo posto,
o una Magione amica o la tua stessa Casa.
Ogni morte d'uomo mi diminuisce,
perché io partecipo all'umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la campana:
Essa suona per te.
John Donne (1573-1651)
5 luglio 2015
Le conseguenze economiche della pace e il fallimento dell'Europa Unita a guida neonazista
Da quando ho creato questo blog mai sono stato assente per tanti mesi. In questo 2015 ho scritto un solo post. Avevo idee per almeno una dozzina di articoli, riflessioni da condividere, provocazioni da lanciare. Ma mi mancava il tempo. Ogni minuto della mia precaria esistenza dell'ultimo anno l'ho dedicato a lavorare, lavorare, dalle 10 alle 16 ore al giorno, senza pause, anche nei weekend. Non per fame di ricchezza o carriera, ma per fare la mia parte. Dare qualche opportunità di formazione e crescita alle mie figlie, pagare le tasse, spingere sull'acceleratore della ripresa con gli strumenti a mia disposizione: qualche competenza e tanta buona volontà.
Tanto lavoro e tanti sacrifici, in questi giorni di discussione sul futuro della Grecia, mi hanno ricordato la prima, dominante, negativa impressione che mi fecero i greci quando visitai la loro terra.
Il ricordo che ho della Grecia, quando una decina di anni fa sono andato in vacanza lì, è di un paese completamente privo di "etica economica". Le persone vivevano baciate dal sole, dal turismo che garantiva entrate, e da un nero profondo. Nessuno sapeva cosa fosse una ricevuta, uno scontrino, una dichiarazione fiscale.
Ricordo il padrone di casa che affittò al nostro gruppo di amici 3 appartamenti della sua grande casa, acquistata con i soldi della sua generosa pensione svizzera (era emigrato in gioventù e aveva lavorato per trent'anni come portiere in un condominio). Non si poneva minimamente la domanda se fosse giusto o meno non dichiarare i soldi degli affitti che incassava (per inciso, la casa non l'avevo trovata io, che mai avrei accettato di pagare senza una ricevuta).
Una persona benestante, che non aveva bisogno di nulla, ma che si rifiutava di pagare alcunché al fisco del suo Paese. O meglio, del Paese che lo ospitava, che lo riaccoglieva, e nel quale non aveva mia pagato tasse nella sua vita lavorativa.
Come lui la quasi totalità degli esercizi economici nei quali mi sono imbattuto in quell'estate del 2005.
Ecco, questo è tutto quello che dirò di negativo della Grecia. Non aggiungerò altro. Dico solo che se penso al mio ultimo anno di lavoro, o al prototipo di italiano onesto che si sforza di pagare le tasse, di credere che la propria goccia sia fondamentale per la ripresa del proprio Paese, devo riconoscere che nel mio breve soggiorno in Grecia non ho incontrato nessuno che incarnasse nemmeno lontanamente questo profilo di cittadino.
Spero di essere stato sfortunato, o che le cose siano cambiate in questi anni. Fatto sta che questo post non parla delle colpe della Grecia. Parla della colpe dell'Europa. Ho solo voluto raccontare un aneddoto perché è giusto tener presente che lo Stato ellenico e i greci come singoli cittadini qualche colpa ce l'hanno.
Ma procediamo per gradi. Parliamo di un altro colpevole. Parliamo delle colpe della Germania.
Senza voler ricorrere a facili flashback storici, che possono troppo semplicisticamente mostrare i Tedeschi come un popolo di assassini senza scrupoli, egoisti, senza morale o senso di giustizia, mi limiterò qui a presentare un dato di fatto: sono loro i responsabili della profonda crisi economica che dal 2007 in poi l'Europa sta vivendo.
La Banca Centrale Europea, senza un mandato statutario che la autorizzasse a garantire il benessere economico nell'Eurozona (ma solo la stabilità dei prezzi), è sempre stata soggetta alla linea di rigore imposta dalla Germania (primo azionista), che ha pretesto manovre economiche recessive per gli stati indebitati, garantendosi così la sudditanza perenne degli stessi.
Gli analisti più illuminati affermano che il motivo per cui i Tedeschi tengono soggiogati i paesi con alto rapporto tra debito pubblico e PIL è quello di garantirsi un Euro sufficientemente debole per consentire le loro esportazioni. Se avessero avuto una moneta legata alla loro economia non avrebbero goduto di un ciclo economico favorevole così lungo, perché il rialzo della stessa avrebbe frenato le loro esportazioni (scrissi qualcosa al riguardo qualche anno fa, dopo un viaggio in Germania) e aiutato le esportazioni dei paesi con moneta debole.
Trovo allucinante che nessun leader europeo abbia mai gridato allo scandalo e abbia preteso di ridefinire le regole economiche comuni, per evitare che l'interesse di uno stato consista nella povertà e nell'indebitamento degli altri.
Ma non servirebbe inventare nuove regole per consentire la ripresa della Grecia, del Portogallo o dell'Italia. Basterebbe applicare quelle stesse regole che gli stati europei vincitori della II Guerra Mondiale hanno applicato alla Germania nel 1953, quando si resero conto che non sarebbe mai riuscita a ripagare le sanzioni di guerra [1].
Oltre a cancellare metà del debito, gli stati creditori si accordarono per applicare una regola che avrebbe garantito la ripresa della Repubblica Federale Tedesca, grazie ad una rapida industrializzazione. La regola "di civiltà" che sottostava a tale accordo era molto semplice: gli stati creditori dovevano importare beni da quelli con debito elevato.
Val la pena approfondire questo semplice concetto macroeconomico.
Se un paese esporta più di quello che importa, ha un'eccedenza commerciale (o surplus). Ciò produce un reddito in eccesso, che non è speso in beni importati. Tale eccesso può servire a riassorbire il proprio debito, oppure si trasforma in credito verso altri paesi, che a loro volta s’indebitano.
Ecco perché l'Europa, per aiutare la Germania a riprendersi dalle conseguenza della Seconda Guerra Mondiale (che essa stessa aveva scatenato), decise di importare beni prodotti nella Repubblica Federale Tedesca, creando così le condizioni per l'ascesa della potenza industriale che oggi tutti conosciamo.
Quello che però pochi sanno è che la Germania di oggi ha un surplus commerciale, che difende a denti stretti, pari al 5,8% del PIL (stima del Fondo Monetario Internazionale per il 2015), quando invece potrebbe importare merci dai paesi creditori, per aiutarli ad uscire dalla crisi.
Ecco, questo significa essere ingiusti, di fronte alla Grecia, di fronte all'Italia, di fronte alla Storia.
Ecco perché il titolo di questo post parla di un'Europa a guida nazista. Non per riprendere titoli sensazionalistici di politicanti in cerca dello slogan facile, ma perché non riesco a trovare un termine più appropriato che sintetizzi le ingiustizie (e le conseguenti crudeltà subite da "liberi" cittadini) che da anni mi trovo ad osservare sul piano macroeconomico.
Certo, le colpe dei padri non ricadano sui figli. Ma i figli non commettano le colpe dei padri.
Ed invece mi sembra proprio che i Tedeschi che oggi guidano l'Europa siano dello stesso tipo di quelli che hanno commesso i più efferati crimini contro l'umanità che la storia abbia finora conosciuto.
Certo, anche la Germania ha avuto le sue Rose Bianche [2], segno che in tutte le epoche e in tutti gli stati ci possono essere persone giuste che si battono per arginare la malvagità della maggioranza. Ma è alla maggioranza dei Tedeschi che ora sto pensando, a quella maggioranza che la Merkel non vuole scontentare in quanto suo elettorato di riferimento.
Non basta qualche decina di anni a cambiare una persona, figuriamoci un popolo. Ci vogliono filosofi, letterati, scuole di pensiero, movimenti, associazioni di volontariato, perfino religioni. E secoli, se non millenni.
La Germania, dal 1939 ad oggi, non ha visto grandi rivoluzioni culturali, né movimenti di rinnovamento sociale. Anzi, è stata animata da un unico sentimento: la vendetta.
E qui veniamo al vero colpevole della crisi della Grecia, della crisi dell'Italia e della recessione di tutta l'Eurozona. L'Europa stessa.
La prima colpa è senz'altro quella di non aver mantenuto lo spirito dei padri fondatori, che era di sussidiarietà fra gli stati membri. La seconda è che non ci si è dati regole adeguate per una convivenza economica pacifica, in grado di prevenire la scorrettezza di uno stato rispetto ad un altro (vedi la regola della bilancia commerciale in funzione del debito fra stati, sopra descritta).
Ma c'è una colpa più antica, un peccato originale commesso da alcuni stati, che stiamo scontando ancora oggi.
Ed è il mancato perdono della Germania dopo la Prima Guerra Mondiale, quello che ha portato alla Seconda Guerra Mondiale e che ha alimentato nel popolo tedesco il sentimento di vendetta che oggi stiamo sperimentando sulla nostra pelle.
Quando John Maynard Keynes nel 1919 partecipò alla conferenza della pace di Versailles come delegato del ministero del tesoro britannico, si battette per arrivare ad una pace molto più generosa di quella che invece si arrivò a siglare. Keynes riteneva le sanzioni imposte alla Germania così eccessive, da prevedere che sarebbero state la causa di nuovi turbamenti sul piano geopolitico. Non fu ascoltato e decise di scrivere le sue idee in un libro che ha fatto scuola e che è stato tristemente profetico: "Le conseguenze economiche della pace" [3].
Ecco, io credo che le conseguenze di quella pace le scontiamo ancora oggi, in un'Europa guidata da rapporti di forza non bilanciati e da leader miopi che non conoscono la storia o che, pur conoscendola, non sanno trarne i dovuti insegnamenti.
Tanto per fare un esempio, il mandato esclusivo affidato alla BCE, ovvero il controllo dell'inflazione, ha origine nella grande paura dei Tedeschi legata all'iperinflazione, che risale ai tempi della svalutazione del Marco durante la Repubblica di Weimar, negli anni venti del '900. L'iperinflazione era dovuta alla continua emissione di valuta per ripagare i debiti di guerra (proprio quelli che Keynes aveva messo in guardia dall'imporre).
Ecco, quel ricordo dei loro nonni o bisnonni, che andavano in giro con carriole di cartamoneta per comprare un pezzo di pane, ha indotto i Tedeschi a imporre un mandato alla Banca Centrale Europea quantomeno limitato (se non addirittura controproducente, nella stragrande maggioranza degli scenari economici).
Nell'attuale scenario economico, diseguale e disastroso, la chiave potrebbe essere il Perdono. Lo è stato nel 1953 con la cancellazione del debito della Germania, precondizione per la nascita dell'Europa. E può esserlo nuovamente oggi, con l'applicazione di nuovi principi di sussidiarietà fra gli stati.
Ciò porterebbe alla nascita di una nuova Europa Unita, un'Europa che non sia solo un'unica moneta, ma un'unità dei popoli che si riconoscono nel principio di fraternità. Secondo questo principio un tedesco non potrebbe tollerare che un greco non abbia medicine con cui curarsi, qualsiasi siano le colpe di quel greco (che, come ho scritto in apertura, sicuramente ne ha).
Non so se e come la scelta che la Grecia oggi sta prendendo potrà innescare un dibattito in tal senso, ma me lo auguro.
Così come mi auguro che l'Italia faccia la sua parte per essere portavoce di un'economia solidale, non coercitiva e più intelligente. Renzi deve capire che qui non stiamo perdendo solo 65 miliardi di euro (a tanto ammonta la stima dell'esposizione italiana nel debito greco); stiamo perdendo l'opportunità di costruire un'Europa nuova, finalmente giusta, che funzioni politicamente, che crei valore per tutti gli stati membri. L'Europa nella quale ha senso stare.

NOTE
1) "How Europe cancelled Germany’s debt in 1953" - Jubilee Debt Campaign, 26 febbraio 2015
2) "Die Weiße Rose" (Rosa Bianca), movimento nonviolento di opposizione al Nazismo, attivo fra il 1942 e il 1943
3) "The Economic Consequences of the Peace" - John Maynard Keynes, 1919
12 gennaio 2015
La Setta della Parola Sola
Titolo del libro
Prefazione
[Prefazione di Umberto Eco alla 50ª edizione italiana]«"Una nuova setta si aggira per l'Europa: la Setta della Parola Sola. Tutte le religioni della vecchia Europa si sono coalizzate in una sacra caccia alle streghe contro questa setta: il papa e il patriarca di Mosca, Gilles Bernheim e Justin Welby, radicali francesi e poliziotti tedeschi. [...]".
Così inizia il romanzo di Latuni e così ho scelto di iniziare la prefazione a questa cinquantesima ristampa che ho il privilegio di introdurre. Inizio così perché non c'è modo migliore di portare subito il lettore nell'atmosfera del romanzo fanta-storico di Marco Latuni e, soprattutto, di chiarirne subito l'aspetto principale che lo caratterizza: infiniti rimandi ad infiniti livelli di interpretazione del testo.
Le arcinote parole del Manifesto del Partito Comunista del 1848 nell'incipit stanno proprio ad indicare questo al lettore: ogni cosa che leggerai significa anche qualcos'altro. E le combinazioni di significati si moltiplicano esponenzialmente man mano che si leggono le citazioni, i riferimenti a fatti di cronaca o i dialoghi dei personaggi costruiti con pezzi estrapolati da altri libri.
Ma Marco Latuni non è un dotto scrittore che vuol mostrare quanto sa e di fatto far sentire ignorante il lettore riempendo di citazioni il romanzo (cosa che qualche critico ha invece scritto di me!); lui lo fa per un fine preciso, direttamente connesso alla trama del libro: vuole dire mille cose, quando i protagonisti del libro si affannano a dirne una sola. Chi ha ragione, autore o personaggi in cerca di autore? Non esiste risposta, o almeno non ne esiste una sola.
Siamo nel 2048, la tecnologia è più o meno come la conosciamo oggi, non ci sono macchine volanti o robot spietati, ed anche la società è simile a quella contemporanea, non ci sono regimi totalitari alla George Orwell, né modi di vivere tanto diversi dai nostri giorni. Forse l'unico aspetto degno di nota che emerge dalle ambientazioni dei capitoli è che il mondo è più secolarizzato e più materialista di come lo consociamo oggi; niente di eccessivo, beninteso, diciamo piuttosto che è il logico punto di arrivo di una retta di regressione lineare tracciata partendo dal livello di religiosità degli inizi del '900 in Europa e passando per il materialismo superficiale della prima decade del secondo millennio.
Ma è in questo contesto di a-religiosità e agnosticismo, che sembra l'atteggiamento dominante del mondo del 2048, che inizia a diffondersi nelle capitali europee una setta molto particolare: la Setta della Parola Sola.
Gli adepti non hanno altre regole se non quella di mantenere il silenzio perenne, sia fra loro che con il resto del mondo, e dedicare la vita a diffondere, pacificamente e in silenzio, una parola sola.
Vanno in giro con un cartello al collo, dove è scritta la parola che hanno scelto, conducono esistenze semplici, miti. Per lo più vivono di elemosine o di lavori dove non è necessaria favella.
Negli anni 70-80 capitava di vedere per le città di tutto il mondo gruppi di adepti al Movimento Hare Krishna, che, con vesti bianche o color zafferano, con i capelli rasati e con codino, cantavano sorridenti e festanti il loro credo, fra suoni di flauti e di tamburelli. Di loro, come di centinaia di altre sette, non c'è più traccia nel futuro descritto da Latuni; in tutta Europa si vedono solo individui silenziosi che se ne vanno in giro con una cartello in mano o al collo, con una parola scritta sopra. C'è chi usa un semplice pezzo di cartone, chi ha inciso a fuoco sul legno la sua parola, chi se l'è tatuata sul petto o sulla schiena, chi l'ha dipinta col suo sangue su un telo bianco e lo va sventolando con vigore in faccia agli uomini del 2048, che guardano sconcertati senza capire.
Eppure qualcuno capisce. Sempre più persone decidono di lasciare le loro esistenze per aderire alla Setta della Parola Sola. Non ci sono capi, non ci sono riti, ci si spoglia di tutti gli averi e si inizia a giare per il mondo "donando" agli altri "la parola sola".
Il romanzo inizia proprio con una ragazza della "Milano bene" che, vedendo un gruppo di adepti camminare silenziosi per le via del centro, scrive con il rossetto la parola "Perdono" sulle pagine di un libro universitario e si unisce a loro.
A dispetto dell'incipit citato all'inizio, poco spazio viene dato al pur affascinante intreccio di spionaggio e contro-spionaggio fra i capi delle principali religioni mondiali (tutti impauriti per l'effetto dirompente che la setta sta avendo sul numero dei fedeli afferenti al proprio credo). Il fulcro del romanzo sono invece le vite delle persone che aderiscono alla setta. Ognuno per motivi diversi, ognuno dando il proprio significato a quella particolare parola.
Decine di personaggi che non hanno un nome e cognome, ma una parola sola. C'è "Felicità", c'è "Dono", ci sono tanti "Amore", ognuno diverso dall'altro, c'è "Casa", c'è "Mare", c'è "Io", c'è "Noi". Ci sono anche tanti "Dio", "Allah", qualche "Buddha" (per lo più gli ex-buddhisti preferiscono "Illuminazione" o "Pace").
Sovente capita che nello stesso gruppo di adepti si ritrovino parole uguali o affini, ma è una condizione temporanea. Se il gruppo "Pace, Serenità, Unità, ecc." incontra nel proprio peregrinare "Io, Basta, Stronzi" c'è sempre l'adepto che si stacca dal gruppo originario, magari quello che l'ha inspirato ad aderire alla setta, per andare con quello che propugna parole molto diverse. Il senso è che leggere una parola bianca fra tante nere o una nera fra tante bianche dà più risalto alla voce diversa e consente quindi all'adepto di meglio far emergere il proprio credo.
Le dinamiche di scelta e di migrazione fra gruppi erranti sono al centro delle vicende narrate con sapiente maestria da Marco Latuni e portano il lettore ad immedesimarsi a tal punto che vorrebbe essere ciascuna di quelle parole.
Forse il vero motivo per cui questo libro tanto complesso è diventato un best seller mondiale è che mette in crisi chiunque. Nessuno ne esce intero, nessuno immune dal fascino dell'essenzialità della scelta che fanno i protagonisti.
Ad ogni cartello alzato in silenzio al cielo c'è un pezzo di noi che va in frantumi. Ed una parte di noi che impara una parola per la prima volta, scoprendone il significato più autentico.»
L'Osservatore Romano: «Un libro meraviglioso e toccante, che è un'irrinunciabile traccia per meditare su se stessi, sul significato che attribuiamo alla vita. In ultima analisi il romanzo è una lunga e sofferta meditazione dell'autore sull'uomo, il suo fine, la sua fine.»
La Nazione: «A tanti sarà capitato di essere in difficoltà nello scegliere un libro da regalare, magari per Natale, ad una persona amica cui si vuole bene. La difficoltà è tanto maggiore quanto più si vorrebbe comunicare con quel regalo; si vorrebbe che quel libro fosse speciale per la persona che lo riceve, ma anche che parlasse un po' di noi, che condensasse significati e fosse in grado di veicolare concetti importanti o emozioni che vogliamo condividere. Immaginiamo ora di regalare solo il titolo. Anzi, peggio, una parola del titolo. Ecco, leggendo La Setta della Parola Sola di Marco Latuni vivrete le vite di decine di persone che sono state in grado di regalare all'umanità una parola sola. E la cosa più sorprendente e che condividerete ogni singola scelta.»
Avvenire: «Commovente, a tratti struggente. Cosa porta l'uomo ad abbandonare il molteplice per focalizzarsi sull'Uno?»
Le Figaro: «Un libro misterioso, pieno di rimandi ad altri libri e denso di significati nascosti; fin dalla copertina alla prima edizione (mai cambiata in tutte le riedizioni, anche nelle altre lingue), che mostra una donna con in mano un cartello. Su quel cartello c'è un nome che tutto il mondo, purtroppo, ben conosce. Che significato ha quella parola "Charlie"? Nessuno all'interno del romanzo; è "solo" una parola "sola", come le tante altre scelte dai protagonisti che incontriamo nel libro. Ma se si cala la trama nella storia contemporanea, che significato ha quella parola? Che significato ha in relazione al romanzo? E che significato in relazione alle nostre vite?»
The Sun: «Un libro che apre degli interrogativi profondi in ogni lettore: chi sono io, quale parola sono? sono stato sempre questa parola o un'altra? o molte altre? e se sono stato tante parole nella mia vita forse è assurdo sceglierne una soltanto? ma se avessi l'energia per dire una parola sola ed una soltanto... quale direi?»
Washington Post: «Un capolavoro assoluto: un libro dove tutti i protagonisti affermano, anzi, gridano al mondo una parola sola, ma che lascia nel lettore solo domande aperte. Soprattutto, forse, perché si grida in silenzio.»
La Padania: «Noi non abbiamo certo bisogno di aspettare il 2048 per dedicare la vita ad una parola sola: PADANIA LIBERA!»
Autore
Marco Latuni è uno degli autori-rivelazione più interessanti nel panorama letterario italiano degli ultimi anni. Giardiniere di professione da più di vent'anni, dopo l'incredibile successo del libro autobiografico "Io c'ero - Lettere di un padre alla figlia", ha definitivamente intrapreso la professione dello scrittore ed ora è al suo secondo libro.Il suo stile è semplice, lineare e insieme profondo e toccante. Con "La Setta della Parola Sola" si è cimentato in un genere letterario completamente differente dal primo libro, il che lo rende un autore versatile e mai prevedibile. Umberto Eco ha detto di lui: «Vende come Dan Brown e scrive come me. È lo scrittore perfetto».
23 ottobre 2014
Leopolda 5. E il Partito che diventa MOVIMENTO. Ma che ancora usa il contante.
Il 24, 25 e 26 ottobre 2014 ci sarà infatti la quinta edizione di quell'incontro progettuale ed informale che sa di movimento più che di partito e che è stato la premessa del fenomeno #Renzi (il cancelletto è intenzionale).
Sarò alla #Leopolda non per senso di appartenenza, ma per senso di responsabilità.
Non ho più la tessera di partito, da quando il "mio" Partito preferì un decrepito Bersani ad un credibile Matteo Renzi. Ma mi è rimasto, oltre al senso critico, un senso di responsabilità che impone un impegno propositivo, progettuale, per far sì che la politica vada oltre la rappresentanza e incontri il concetto di partecipazione estesa.
Per questa ragione prenderò parte ai lavori della Leopolda. Perché credo che la forma di partito vada superata. Ma anche perché non ho fiducia nella forma di #movimento ("5 Stelle" docet). Voglio davvero capire qual è, se c'è, la soluzione, fra delega assoluta e partecipazione vincolante.
E non riesco ad immaginare un altro sistema per risolvere questo problema che l'eliminazione totale del contante.
Lo Stato deve garantire zero costi di transazione e fornitura dei terminali per il trasferimento di somme di denaro non solo a chi gestisce una attività economica, ma ad ogni singolo cittadino. Con gli smartphone è già possibile; si dovrà solo pensare alla distribuzione di dispositivi semplificati per la Terza Età.
Contestualmente si potranno, anzi, dovranno, eliminare completamente le procedure di richiesta sussidi, dichiarazione dei redditi, procedure per detrazioni-deduzioni, ICE, ISE, ISEE, e mille altre sigle che servono solo a far guadagnare i CAF dei sindacati.
Un paese che ha bisogno dei CAF e dei commercialisti non è un paese civile. E il nostro Paese si fonda sulla burocratizzazione dei processi, anche quelli che avrebbe tutto l'interesse a semplificare.
Nel futuro che immagino non si può aver bisogno di assistenza per pagare le tasse.
Ad ogni cittadino dovrà corrispondere un account in un sistema centralizzato che terrà conto del suo stato di famiglia, di quanto guadagna, di quanto spende, di che diritti e doveri ha nei confronti dell'Erario.
Senza il contante e la conseguente tracciabilità di ogni transazione, il Sistema sarà in grado di semplificare moltissimo la vita di ogni cittadino.
Solo così si potrà arrivare ad una completa valorizzazione dell'economia reale e trasparente. L'eliminazione del contante è solo l'inizio.»
27 agosto 2014
L'estate senza Viaggio
La ricorderò perché è stata un estate senza viaggio.
Non mi riferisco ovviamente "agli spostamenti", quelli, purtroppo, ci sono stati, nel traffico delle autostrade italiane, da nord a sud e da sud a nord, da ovest ad est e da est ad ovest, nel caldo delle ore "più furbe" per evitare i disagi degli esodi estivi (insieme a milioni di altri furbi come te). No, quelli sono meri spostamenti, trasferimenti di persone e cose da un posto ad un altro.
Mi riferisco al Viaggio vero, quello con la V maiuscola, quello fatto nel 2012 attraverso il Nord Europa, o a Vaduz nel 2010, quello del 2007 attraverso gli Stati Uniti o il Cammino di Santiago in bicicletta del 2004, per non parlare delle route a piedi con gli Scout. Insomma, il Viaggio che è la ragione per cui esiste questo blog.
Qualcuno potrà domandarsi perché proprio in questa Estate 2014 (che non è stata certo la prima e non sarà, purtroppo, l'ultima senza Viaggi) mi viene in mente che non ho fatto un Viaggio. Beh, semplicemente perché in questa estate due miei carissimi amici hanno intrapreso due Viaggi importanti (uno il Cammino di Santiago a piedi, l'altro la Traversata delle Alpi in bicicletta) e me ne hanno raccontato vicessitudini ed emozioni. Da ciò la nostalgia del Viaggio vero, del Viaggio che ti cambia.
In particolare la riflessione sull'estate senza Viaggio l'ho maturata in seguito alla lettura di un'e-mail dell'amico trentino che sta attraversando le Alpi in bici da est ad ovest. Giorno per giorno, infatti, trova il tempo di aggiornare via e-mail amici e parenti sul procedere dell'avventura, raccontando ogni tappa con umorismo, sagacia e un pizzico di filosofia.
Questa sua riflessione mi ha fatto sentire davvero la mancanza del "Vero Viaggio di Scoperta" di proustiana memoria, quello non scordi mai, quello che val sempre la pena di fare.
Riporto quindi i suoi pensieri su questo blog, perché li condivido in pieno e perché credo che siano perfettamente in linea con lo spirito che nel corso dei miei Viaggi/Post ho cercato di comunicare.
«[...] Lo so, mancano ancora due tappe, ma la mia non è fretta di concludere l'esperienza. Semplicemente oggi è stata una tappa povera di sorprese, seppure superlativa, e poi sono dell'umore giusto per tirare qualche conclusione o, almeno, per fare qualche riflessione sul viaggio che ahimè (ecco l'ho detto) sta per finire.
Viaggiare non è solo una cosa meravigliosa, come lo zucchero filato o i film in 3D con i tuoi amici a casa. Viaggiare è materia di studio dell'antropologia, è uno stato mentale, è una ragione di vita per molti, comunque è un fenomeno degno di attenzione da parte di praticanti e scienziati. Il punto è che viaggiare, anzitutto, fracassa il micro/macromondo che ti sei costruito con la tua vita privata in città/campagna. Il viaggio annulla le differenze sociali (entro certi limiti) e pone soggetti di status sociale molto diversi allo steso livello. Qualcosa di simile accade nello sport, ma sostanzialmente nello sport il meccanismo di attribuzione di valore all'individuo non è più di tipo socio-economico bensì di prestazione sportiva. Nel viaggio - fatta eccezione per il fatto che più è lungo e avventuroso un viaggio, più è probabile che sia invidiato - questo sistema viene cancellato. Un viaggiatore è come un altro, un esploratore delle meraviglie del mondo che non ha reddito, non ha professione, non ha meriti sportivi o rilievo politico. Un viaggiatore è esclusivamente un cittadino del mondo, niente di più, ma soprattutto niente di meno. È per questo che il viaggio, per le sue caratteristiche intrinseche, pone l'individuo in uno stato mentale che si traduce direttamente in una maggiore apertura verso gli altri, in altruismo, senso di comunità (con gli altri viaggiatori). Attenzione però, il viaggio non è andare vacanza. Viaggiare comporta dei rischi, degli imprevisti, forti flessioni delle proprie abitudini, accettazione delle regole altrui (cosa che spesso mi riesce difficile). Viaggiare significa spostarsi da un posto a un altro, indipendentemente dalle modalità, dalla frequenza, dal mezzo ecc. Nel viaggio, lo spostamento è il fine. Nella vacanza, lo spostamento è il mezzo.
Perché dico tutto questo? Non lo so, forse semplicemente perché troppe poche volte nella vita ho viaggiato veramente. [...] Anzitutto un viaggio non può durare poco. Nel viaggio che dura poco, che è una vacanza e non un viaggio, non esiste il tempo perché avvenga quel cambiamento dentro di noi che ci fa entrare nella "modalità viaggio".
Ci sono delle persone fra quelle che leggono che hanno viaggiato meno di me, altre di più, ma questo è un messaggio per le persone che lo hanno fatto poco. Il messaggio che voglio passare è questo: non importa se siete ricchi o poveri, sposati o single, occupati o annoiati. Prendetevi, almeno un paio di volte nella vita, il tempo di fare un viaggio vero. Non è detto che vi cambierà la vita, con me non lo ha mai fatto. Ma vi regalerà qualcosa per cui la vita la valorizzerete come non è possibile fare in altri modi. Potrete viaggiare con la vostra famiglia, da soli, in bici, in vespa, a piedi, in camper o in auto con una tenda. Anche passando di albergo in albergo, non importa. Non lasciate passare la vita pensando che non è il momento, che siete vecchi o siete limitati dalla famiglia o dal lavoro. La vita va vissuta e tra i mille modi di farlo, uno dei migliori è fare un viaggio, quello che volete voi o, meglio ancora, quello che avete sempre sognato. Viaggiare costa fatica. Costa fatica organizzare, spendere, mettere d'accordo, rinunciare ad altre cose. Ma vale la pena, perché i miei dischi posso venderli, le casse si rompono, le bici le rurbano, le auto si svalutano. Ma quando pensi a quel viaggio che hai fatto, quando lo racconti, e meglio ancora quando lo vivi, le cose materiali perdono di valore, perché sono tue ma non lo sono veramente.»
Il Viaggio, invece, è tuo per sempre.
13 agosto 2014
La società dell’incertezza
Per troppe persone il presente è il posto peggiore dove passare la propria vita. Ed il futuro non promette niente di buono.
Questo stato di cose, purtroppo, non è passeggero e assume sempre più il carattere di una condizione permanente e immutabile.
Non basta l'ottimismo di Renzi a cambiare la situazione e a dare speranza, lì dove manca e la sicurezza, e la libertà.
Zygmunt Bauman (da "La società dell’incertezza", 1999)
26 maggio 2014
#RenziAvevaRagione
Il treno che mi porta a Firenze passa per Pontassieve... e un sorriso mi affiora sulle labbra. Prendo il tablet e torno a scrivere di politica sul mio blog. Era un po' che non lo facevo, ma questa mattina è importante che chi "sapeva" lo dica chiaramente, lo ribadisca, lo ricordi se qualcuno l'ha dimenticato.
Lo straordinario successo del Partito Democratico alle Elezioni Europee è frutto di una scelta coraggiosa di Matteo Renzi che molti hanno criticato.
Quando Matteo decise di forzare la mano e prendere il posto di Enrico Letta aveva in mente questa tornata elettorale. Sapeva che se non avesse spinto sull'acceleratore ci saremmo trovati con un Governo Letta in carica incapace di fare una campagna elettorale efficace, Grillo avrebbe stravinto, e lui si sarebbe trovato, ancora una volta, ad inseguire i partiti populisti sul campo delle recriminazioni (il PD non ha fatto, la crisi è colpa del governo, ecc.).
Alle prossime politiche Renzi avrebbe dovuto pagare il dazio di essere segretario di un partito minore, sconfitto alle Europee.
Lui ha avuto il coraggio di rischiare e ora siamo qui a scoprirci parte di un'Italia che mostra più cervello e cuore di quanto anche i più ottimisti speravano. Ecco, volevo solo ricordare a quanti dubitavano delle scelte strategiche di Matteo Renzi ai tempi dello strappo con Letta, che lui aveva ragione. Ed io l'ho sempre saputo e sostenuto.
20 aprile 2014
Èxodos
Riflettevo, in questi giorni, sul fatto che il nostro nuovo trasferimento/trasloco coincidesse con la celebrazione della Pasqua cristiana.
Le analogie tra la Pasqua cristiana e quella ebraica sono molte: per gli ebrei nel libro dell'Esodo è descritto il passaggio del loro popolo dalla schiavitù alla libertà, per i cristiani il significato di "liberazione" si sposta sul piano metafisico del passaggio a vita nuova, così come Gesù passò dalla morte alla resurrezione.
Lasciare Milano per Firenze è sicuramente qualcosa di molto meno importante di una riflessione escatologica, se vogliamo qualcosa di normale in un'epoca fluida dove i luoghi sono solo una caratteristica nemmeno troppo determinante delle opportunità. Ma nei momenti di passaggio fermarsi a riflettere sul perché e sul come è utile, oltre che bello. Dona un senso, crea una dimensione in cui si è attori attivi, non spettatori.
Su questo piano ho provato ad attribuire significato al nuovo cambiamento. Lo spunto di partenza è stata proprio una riflessione sulla parola ESODO. Non nell'accezione cristiana e nemmeno ebraica del termine, ma in un significato riconducibile alla cultura della Grecia antica, ed in particolare alla tragedia greca.
La tragedia greca era strutturata secondo uno schema ricorrente, di cui si possono definire le forme con precisione. Iniziava in genere con un prologo (prò-logos), che aveva la funzione di introdurre il dramma; seguiva la parodo, che consisteva nell'entrata in scena del coro attraverso dei corridoi laterali (le pàrodoi); l'azione scenica vera e propria si dispiegava quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro commentava la situazione che si sviluppava sulla scena. Infine la rappresentazione si concludeva con l'esodo (èxodos). Nell'esodo tutte le situazioni intricate in cui i vari personaggi si erano cacciati trovavano finalmente una conclusione, una soluzione.
Ed è su questo significato che mi sono soffermato. Come se davvero questo èxodos fosse di più di un semplice passaggio da una città ad un'altra. Ma quasi un bel finale di una bella storia, professionale e umana.
6 aprile 2014
Fuori Registro
Titolo del libro
Quarta di copertina
[Dalla prefazione di Luca Martino] «No, Fuori Registro non è un libro di Starnone sulla malconcia scuola italiana, non è una rock band di fine anni novanta, né il prossimo album di Fabri Fibra.È un bel libro con un brutto titolo. O con un titolo che c’entra poco con tutto il resto. Non importa, davvero. Importa solo lo stridore fra il percepito ed il sotteso, fra le emozioni di chi scrive e quelle di chi legge. Stridore che nelle immagini più forti è quasi nauseante. Ed allora dovete fare un atto di fede ed entrare nella vita che non avete avuto, o bere “un altro litro di consolazione, prima che arrivi domani”.
Già, perché se volete entrare davvero in Fuori Registro, dovete avere “in corpo il primo vino di una cantina”, come cantava Guccini, o l’ultimo cocktail in uno squallido bar di periferia. Se lo affrontate da sobri rischiate di scorgere solo arte, lì dove l’ubriaco, invece, ritrova tracce di vita vissuta.
Ma anche no. Potreste desiderare di leggere i versi di Pier Paolo Carbone alla lucida luce della vostra vita ragionevole e compassionevole. Potreste volervi sentire superiori nel comfort delle vostre camere arredate con cura, lontani dai sudici vicoli di una città degenere, che sanno di piscio e di tristezza affogata nell’alcol. Già, perché “la birra è un bene rifugio”. Refugium peccatorum. E voi non ne avete bisogno. Potreste trovare ripugnante un verso, un’immagine, una virgola. Voi non siete così.
Ma poi le difese crollerebbero ugualmente. Alla quarta, quinta frase che vi toccherà nel profondo, entrerete in crisi. E potreste sentirvi cani affamati, balene spiaggiate, palmipedi senza coscienza, pappagalli finalmente liberi. Potreste immedesimarvi così tanto nei versi sparsi da pensare che quella vita è proprio la vostra. Magari quella che non avete avuto il coraggio di scegliere.
E potreste sorprendervi, un giorno, a dare un nome ad una protuberanza ghiacciata nel vostro frigorifero. O decidere di smettere di sbrinarlo regolarmente, per vederne nascere finalmente una.»
Der Spiegel: «Il ritratto realistico di una generazione degenere, lo specchio di un'Italia che vive una crisi morale oltre che economica.»
Washington Post: «Un capolavoro! Carbone, al suo esordio letterario, sorprende per la maturità dello stile e la profondità dei contenuti.»
L'Osservatore Romano: «Se potessimo lo inseriremmo subito nell'Index Librorum Prohibitorum. Sono autori come questi che ci fanno desiderare il ritorno della Santa Inquisizione!»
La Frusta Letteraria: «Chiari ed inequivocabili i riferimenti a libri culto della letteratura americana, come Sulla strada di Jack Kerouac e Post Office di Charles Bukowski.»
Il Vernacoliere: «Alla redazione il Pippo l'è garbato da matti. Che dé, più prova della su’ bravura ‘un ci pol’esse’!»
Autore
Pier Paolo Carbone è l'ultimo dei grandi scrittori italiani ispirati dalla Beat Generation. Ed anche il primo che lo neghi apertamente. Vive di parole come solo i markettari sanno fare (uomini del marketing, si intende). Ma non disdegna di vivere di sogni, come solo i consumatori sanno fare."Fuori Registro" è il suo primo romanzo, tradotto in 18 lingue e accolto in maniera contrastante dalla critica di tutto il mondo. Ha recentemente dichiarato che è felice di non essere compreso; in fondo, autocitandosi, "domani potrebbe essere il giorno giusto per non farsi capire".