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14 aprile 2011

Lettera a Riccardo Luna, direttore di Wired Italia

Caro Direttore,
le scrivo non in veste di lettore disaffezionato, come talvolta mi capita di leggere nelle lettere di apertura del magazine che dirige. Lungi da me ventilare minacce di "non rinnovare l'abbonamento": Wired è una rivista unica, speciale, e non smetterò mai di leggerla con vivo interesse.
Quanto segue, quindi, non riguarda minimamente la qualità della vostra rivista, che è e rimane di molto superiore a gran parte dell'offerta presente nel panorama dell'editoria periodica italiana.

Quello che volevo dirle riguarda semmai una scelta editoriale "secondaria" (ma nemmeno tanto secondaria): quella delle pubblicità che ospitate su Wired.
Lavoro in un'Agenzia di Comunicazione, quindi so bene quanto siano fondamentali le entrate delle inserzioni pubblicitarie per un qualsiasi magazine. E sono ben contento di poter avere una rivista come Wired a prezzi contenuti, accettando di essere "esposto" a comunicazioni di tipo promozionale. Mi ritengo un consumatore consapevole e credo che la pubblicità giochi un ruolo fondamentale in un'economia di mercato (sebbene oggi ci sia necessità di un approccio etico nel fare advertising).

Quello che però non riesco ad accettare è che una rivista come Wired non faccia scelte di campo su quali sponsorship accettare. Mi riferisco in particolare alla pubblicità di Finmeccanica, apparsa in terza di copertina nell'ultimo numero (di aprile) della sua rivista. Come lei sa, si tratta della principale industria militare del nostro Paese.

Lei che è stato promotore della campagna Internet for Peace e della candidatura dei Padri della Rete al Nobel per la Pace, speravo potesse chiudere a questo tipo di inserzionisti la rivista che dirige. Io credo che il pacifismo si costruisca a piccoli passi, e fare scelte editoriali sulla pubblicità che si veicola è uno di questi.

Certo, Finmeccanica utilizza tecnologie avanzate ed investe in ricerca più di qualunque altra realtà italiana; e quindi potrebbe passare per "wired". Invece no, non è "wired". La logica che gli investimenti sul militare abbiano ricadute sul civile è una bugia immensa: si investe 1000 sul militare per avere 10, dopo vent'anni, sul civile. Ma perché non si investe direttamente in ricerca quel 1000 che si regala a fondo perduto al militare? La ricaduta sarebbe immediata e con percentuali di impatto molto maggiori.

Sono anni che sento la storiella che internet lo dobbiamo alla ricerca militare. Ma è grazie allo sviluppo dei centri di ricerca universitari che la rete è diventata qualcosa di ben più importante che un esperimento della DARPA. Ed è grazie a Tim Berners-Lee che è nato il web. Diciamo solo che l'entità degli investimenti nella ricerca in campo militare fornisce strumenti superiori ad altri settori.
Perché non c'è nessun altro settore economico in grado di assorbire volumi così rilevanti di investimenti senza dover necessariamente sfornare un prodotto. Si chiama RICERCA DI BASE, quella che nelle nostre università ormai non si fa quasi più, perché si chiede loro di sostituirsi all'industria (che in Italia si limita a fare produzione e non innovazione) e fare quindi mera ricerca applicata.

Personalmente ho avuto modo di dire il mio NO alla logica di chi tollera questi squilibri nel sistema di ricerca italiano, apprezzando o addirittura sostenendo l'industria militare.
Mi farebbe piacere che anche lei prendesse una posizione in merito. Sarebbe quel piccolo passo verso un pacifismo fatto di testimonianze concrete.

Buon lavoro e in bocca al lupo per le sue importanti battaglie per lo sviluppo socio-economico del nostro Paese.

Luca Martino