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27 settembre 2013

La stanchezza dei #guerrieri

A me la pubblicità corporate di Enel "#guerrieri" è subito sembrata vecchia.


Già vista, già discussa fra addetti del settore, già obsoleta nei temi e nel suo evolversi. L'ho percepita vecchia non solo nel dispiegarsi dello storytelling sui social media, ma anche per le discussioni sull'advertising in sé che avrebbe generato.

Se non avessi letto un articolo di Paolo Iabichino (Il crashtag di Enel), quindi, avrei evitato la mia parte di colpevolezza nel prendere parte alla discussione. Ma stimo Iabichino come pubblicitario e raramente sono in disaccordo con le sue visioni. Provo quindi a contribuire con il mio punto di vista.

La campagna è completamente sbagliata. Ed è sbagliato pensare che una buona fotografia, un buon concept e un buon copywriting possano rendere accettabile quello che è sbagliato dalle fondamenta: toccare le leve emotive di chi davvero non ne può più.
Se anche avessero lanciato la campagna senza logo del cliente, non si sarebbe ottenuto molto più che una procrastinazione del giudizio di condanna, acuito probabilmente anche dall'attesa e le supposizioni sul brand sponsor di tale advertising.

Il problema è che prima di qualsiasi brainstorming creativo bisogna davvero sentire il polso del target. Con "davvero" intendo viverci un mese fianco a fianco, vedere cosa leggono, cosa mangiano, quante notti insonni passano quei #guerrieri.
Così, forse, il brillante copywriter o il marketing manager di turno avrebbe desistito. O avuto un'altra idea.

Sarà che la crisi che stiamo vivendo dura da troppo, troppo tempo. La più lunga che il mondo del marketing abbia mai affrontato. E quindi le pubblicità che fanno leva sui buoni sentimenti e il valore dei #guerrieri si sprecano.
Non occorre ricordare Piazza Italia con "I veri miracoli li facciamo noi" nel 2011 e l'attuale "Io faccio la mia parte", oppure Conad con "Persone oltre le cose". I brand che hanno deciso di percorrere questa strada sono tanti e da troppi anni.

Quando nel 2009 ci fu l'originale campagna "Per Fiducia" di Intesa Sanpaolo, io fui tra quelli che l'apprezzarono e la ritennero una grande operazione, non solo artistico-mecenatica, ma culturale e sociale.
Ma quando, all'inizio del 2012, scrissi un articolo su "L'italianità nella pubblicità (al tempo della crisi)", la misura era già colma. E mai avrei pensato che, col proseguire della crisi, sarebbe rimasto il vezzo, ai creativi svogliati, di percorrere sempre le stesse strade.
Chiunque abbia visto gli spot in TV di Enel si sarà domandato perché i pubblicitari non la smettono di far leva sulla dignità e il coraggio delle persone comuni. E me lo domando anche io.

Trovo quindi la pubblicità #Guerrieri di Enel estremamente vecchia. Perché dopo oltre 5 anni di crisi i pubblicitari potevano inventare qualcosa di più adatto al contesto.

Questo non significa che non esista un modo "tollerabile" ed insieme efficacie di parlare di crisi economica nella pubblicità. Ho trovato ad esempio ben fatta la campagna "Riparti con Eni" dell'estate 2012. Se non ricordo male, anche Paolo Iabichino ne ha scritto bene, ma la mia valutazione non è relativa solo alla tipologia di messaggio o alla scelta del testimonial nello spot televisivo (un simpaticissimo Rocco Papaleo). La carta vincente è stata lo sconto messo in campo da Eni (inusuale per gli standard del settore). C'era sempre fila fuori le pompe di servizio del gruppo petrolifero, nei giorni di sconto.

Una risposta concreta da chi possiede il potere economico, questo vogliono in tempo di crisi i consumatori; non basta più la promessa di valore o la costruzione di un valore percepito.
In tempo di crisi bisognerebbe che anche gli esperti di marketing dell'occidente industrializzato rispolverassero la Piramide di Maslow e si rendessero conto che bisogna ripartire dagli ultimi gradini, dai bisogni primari.

24 settembre 2013

Google, don't be evil... togli il Not Provided e ridacci la Long Tail

Quando nel 2011 dirigevo il reparto di Web Marketing di Archimede, mi trovai ad affrontare il temutissimo "Not Provided" che iniziava a spuntare nei report sul traffico dei siti web per i quali curavamo il posizionamento. Il fino ad allora utilissimo Google Analytics ci forniva dettagliate informazioni su quali chiavi di ricerca usavano gli utenti per accedere ai siti dei nostri clienti ed era quindi un tool fondamentale per l'analisi della Long Tail dei siti, sulla quale basavamo gran parte della strategia SEO.

Purtroppo tale importante insight, a fine 2011, venne a mancare per tutti gli utenti che usavano i servizi di Google. Il colosso di Mountain View dichiarò che intendeva proteggere la privacy degli utenti loggati in uno dei sui servizi (da Gmail a YouTube, passando poi per Google Plus).
Ma io nutrivo dei forti dubbi in merito.
In una sessione di formazione con i colleghi anticipai che Google avrebbe nascosto dietro il "Not Provided" tutte le informazioni legate alle query di ricerca inserite nel proprio motore di ricerca.
Cosa che da ieri è realtà.
E già due anni fa ne intuivo il motivo: fare soldi, ancora di più.
Già, perché se si usa AdWords, il tool di Search Engine Marketing di Google (sempre più costoso negli ultimi anni), le KeyWord di accesso al sito si posso vedere.
Se si integra la visualizzazione dei dati di AdWords in Google Analytics, è praticamente tutto come prima, perché si hanno parole chiave di accesso e dati di traffico (contenuti visualizzati, tempo di permanenza, conversioni e flussi di navigazione). E quindi ogni SEO specialist che voglia analizzare le KeyWord di accesso al sito, da oggi in poi, dovrà necessariamente attivare una campagna AdWords. Oppure usare altre contromisure (io già da 2 anni ne ho messe in piedi alcune) per recuperare le informazioni legate alla Coda Lunga, che conserva un ruolo centrale nelle strategie di posizionamento.

Non che fare soldi sia illegittimo, ma è assurdo che le dichiarazioni dei manager di Google parlino solo di tutela della privacy (mai realmente stata a rischio, anche senza protocollo https).
C'è poca trasparenza in questo modo di agire.

Non avrei mai pensato che, proprio io, estimatore di Big G da sempre, mi trovassi, in meno di un mese, a scrivere due post di critica alle politiche di Google. Ma tant'è.
Forse Google ha dimenticato quel motto che l'ha reso tanto grande e tanto amato dagli utenti: DON'T BE EVIL.

22 settembre 2013

Lean Startup Machine in Milan

Si sta concludendo in queste ore il workshop Lean Startup Machine, per la prima volta in Italia. Avevo partecipato lo scorso aprile a Londra ed ora sono qui come mentor. Ma sempre più per imparare che per insegnare qualcosa. L'unica cosa che non mi stanco mai di dire è che il metodo Lean ti insegna "a sbagliare velocemente". L'avere successo è una conseguenza di questa importante capacità, per ogni startup.

Date un'occhiata alle landing page di validazione dei progetti, per rendervi conto della qualità delle idee in campo in questa edizione milanese:





5 settembre 2013

Perché Android 4.4 KitKat è uno Scherzo Infinito. E perché i nomi sono una cosa seria.

Ormai è sulla bocca di tutti: il prossimo Android 4.4 si chiamerà KitKat.

La tradizione dei naming del sistema operativo per dispositivi mobile di Google raggiunge il suo apice più controverso: non un generico nome di dolce, ma il nome di un brand di prodotto conosciuto e diffuso a livello mondiale.

Questa dunque l'evoluzione dei naming delle varie versioni di Android...
  • 1.5 Cupcake
  • 1.6 Donut
  • 2.0 Éclair
  • 2.2 Froyo
  • 2.3 Gingerbread
  • 3.0 Honeycomb
  • 4.0 Ice Cream Sandwich
  • 4.1 Jelly Bean
  • 4.4 KitKat

Quando la notizia della partnership fra Google e Nestlé è stata ufficializzata, il mio primo pensiero non è stato "che geniale mossa di marketing". E nemmeno "che pessima mossa per Google associare il proprio nome ad una multinazionale così discussa come Nestlé".

Il mio primo pensiero è stato: il Tempo Ante-Sponsorizzazione è finito.
Ovvero mi è tornato alla mente il visionario futuro prossimo descritto da David Foster Wallace nel suo corposo libro Infinite Jest (Lo scherzo infinto), nel quale le multinazionali, alla continua ricerca di spazi per imporre il proprio brand, ottenevano il diritto di sponsorizzare un intero anno solare.
Invece di pratici numeri, entravano così nella mente delle persone (e nella storia) l'Anno della Saponetta Dove in Formato Prova oppure l'Anno del Pannolone per Adulti Depend e perfino l'odiatissimo Anno dell'Upgrade per Motherboard-Per-Cartuccia-Visore-A-Risoluzione-Mimetica-Facile-Da-Installare Per Sistemi TP Infernatron/InterLace Per Casa, Ufficio, O Mobile Yushityu.
Il periodo prima di questa rivoluzione veniva indicato come Tempo Ante-Sponsorizzazione.
D'altronde il nome del tempo ha sempre rivestito un ruolo importante nelle "strategie di comunicazione" di imperi e regimi, non a caso i mesi dell'anno in Occidente ci ricordano ancora nomi di dei o imperatori romani. Perché il tempo è di tutti e misurarlo, "chiamarlo" è una necessità imprescindibile. E non a caso ci sono state "rivoluzioni" nei naming per affermare nuove ere, come nel caso del Calendario Rivoluzionario Francese.


Ecco perché la decisamente invasiva mossa di usare il naming di due prodotti molto diffusi per fare una gigantesca operazione di co-marketing mi è sembrato il campanello d'allarme definitivo: ormai nemmeno i nomi sono al sicuro. Il Tempo Ante-Sponsorizzazione è finito.
Il "nomina sunt consequentia rerum" di giustiniana memoria, diventa quindi un "nomina sunt serva rerum", stravolgendo il ruolo stesso dei nomi nella comunicazione fra le persone.

Non starò qui ad analizzare tutte le teorie di neuro-marketing che sottostanno alla partnership tra Google e Nestlé, né voglio schierarmi a favore o meno di tale scelta. Voglio solo evidenziare che è una mossa di portata epocale.
Il fatto che qui non si stia giocando con i nomi dei mesi o degli anni, ma su quelli di prodotti realizzati da aziende private, non diminuisce la portata storica dell'operazione. Nell'epoca del consumismo i prodotti diffusi a livello globale sono beni pubblici.
Se la Nutella decidesse di chiamarsi Crema di Silvio Berlusconi, dopo una OPA aggressiva di Fininvest verso Ferrero, come vi sentireste??
Smettereste di mangiare Nutella? Scrivereste a Giorgio Napolitano per concedere la grazia a Silvio?
Insomma, nessuno vuole trovarsi in una situazione del genere!

Lo so, starete pensando "Ma dai, è un'esagerazione! Il Berlusca non potrebbe cambiare il dome di Nutella in Crema di Silvio Berlusconi". Guardate che non è fantascienza o fanta-marketing, perché è già successo. Da circa vent'anni milioni di italiani non gridano più Forza Italia quando guardano le partite della nazionale...

Ma allora non c'è speranza, siamo condannati a vedere sulle carte di identità dei nostri figli che sono nati nell'Anno dell'iPhone 8s oppure in quello della Pasta Fresca Fresca & Buona Buona Giovanni Rana oppure (Dio non voglia!) nell'anno della Crema di Silvio Berlusconi??
Non credo.
Avete mai sentito un francese dire che torna dalle ferie dopo il Cardo del Fruttidoro? O che fa il compleanno di Brumaio, nel giorno del Tacchino? Io no. Evidentemente nemmeno la determinazione dei rivoluzionari francesi è riuscita ad imporre le proprie strategie di comunicazione. Col tempo, il buon senso trionfa sempre. O almeno spero.

Ma ora torniamo al tema centrale e al titolo del post.
Questo post doveva intitolarsi Google, Nestlé e la profezia di David Foster Wallace. Ma poi ho pensato che, per coerenza, il focus doveva essere sui prodotti, perché sono loro la chiave per comprendere l'importanza dei naming. Come ho scritto prima, in questa epoca storica i prodotti di largo consumo vanno considerati beni pubblici. E un bene pubblico non può essere trattato con leggerezza.
Nel corso della mia carriera professionale ho lavorato alla scelta di decine di naming di aziende, brand o prodotti, ed ho sempre avuto piena consapevolezza dell'importanza dei nomi che andavo a proporre.
Nella Bibbia "dare il nome" ha un significato ben preciso: significa avere facoltà di dominio sulle cose nominate. Ma a tale facoltà è associata una grande responsabilità. I genitori danno i nomi ai loro figli, ma li custodiscono e li crescono.
Se si abusa della facoltà di dare i nomi senza associarvi una buona dose di responsabilità, si commette un errore imperdonabile.

Per spiegare il concetto con un esempio, è come se, per fare eticamente un'operazione di co-naming come quella siglata dalle due multinazionali, Nestlé avesse dovuto prima assicurarsi che il codice sorgente del sistema operativo Android 4.4 fosse ben fatto e non nascondesse insidie (come porte aperte per la sottrazione di dati all'insaputa degli utenti) e Google avesse dovuto investigare sulle strategie di vendita di latte in polvere della Nestlé alle mamme non abbienti africane.

La domanda è: credete che Nestlé abbia assunto programmatori per l'analisi del codice di Android o Google abbia mandato medici in Africa prima di siglare l'accordo?