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24 ottobre 2007

il Tempo

Sono nell'aula di informatica di Economia, aspettando che riprenda la lezione.
E pensavo.

Oggi mi è venuto a trovare mio cugino Francesco. E' stato nei giorni scorsi ad un convegno a Milano, ed ha fatto una deviazione qui a Trento; poi venerdì torniamo insieme in quel di Calvi Risorta.
Rivederlo in giacca e cravatta, stile manager in carriera, mi ha fatto un certo effetto. Innanzitutto un gran piacere nel trovarlo brillante come sempre, ma poi c'era qualcos'altro, di non ben definito, qualche emozione latente che non veniva a galla.
Questo pomeriggio, passeggiando per il centro di Trento, Francesco mi ha ridisegnato in chiave sociologica il perché della fine dell'Impero Romano. O sarebbe meglio dire "il perché della trasformazione", impropriamente chiamata fine.
E nel chiacchierare piacevolmente a pochi metri sotto terra, mentre visitavamo i resti della Tridentum romana, ho capito.

Ho capito cos'era la sensazione non ben definita che avevo provato in stazione, alla vista di mio cugino.
Era innanzitutto sorpresa, stupore, e poi un turbine di emozioni differenti, tutte frutto di un'unica istantanea consapevolezza: il Tempo passa.
Quasi una subitanea e fugace illuminazione, una rivelazione di un concetto che in realtà conosciamo benissimo, ma di cui ci rendiamo conto solo a tratti.
Come se la nostra mente rifiutasse in un certo senso l'inevitabile e impietoso scorrere del tempo, abbiamo barlumi di percezione temporale solo quando rivediamo persone care dopo mesi o anni, oppure alla vista di luoghi visitati in un passato lontano, o ascoltando musiche, sentendo odori, percependo sensazioni che come in una ricerca proustiana ci conducono nei meandri della nostra mente,
lì dove i ricordi stanno,
come pietre miliari lungo il cammino della vita,
a confermare che il Tempo
è un'inesorabile, veloce
retta.

E se una visione agostiniana del tempo, di questa linea che partendo dalla creazione del Cosmo e passando per la nascita di Cristo punta verso la Salvezza, ci appare in un certo qual modo adeguata a spiegare il "fine" del Tempus Fugit, nondimeno ci appare più "sopportabile" e meno traumatica per la nostra psiche quella visione greca del tempo, di quel tempo circolare, che torna sempre su sé stesso, e che nel vivere quotidiano, così come nei corsi e ricorsi storici, sembra avere continua conferma.



Eppure la percezione più forte, più sconcertante dello scorrere del tempo, non è legata ad una spiegazione di tipo filosofico, bensì alla semplice esperienza.
La sensazione maggiormente persistente circa l'inesorabile scorrere del tempo, per quanto mi riguarda, me l'ha fatta provare Francesco Veltre, in arte Ciccio.
Eravamo, in una lontana notte di agosto di sette anni fa, in quel di Londra. Dopo una giornata di lavoro massacrante, stanchi e meditabondi, ci eravamo messi a letto. Avevamo affittato una stanza nei pressi di Queen's Park, al mitico 143 di Bravington Road. Con lo sguardo al soffitto, ognuno nel proprio letto, non riuscivamo a prender sonno, nonostante la giornata piena appena passata. In casi come questo eravamo soliti chiacchierare fino a tarda ora praticamente di tutto; di cosa avremmo fatto dopo il liceo, di un mitico viaggio on the road in America (che poi abbiamo fatto!), di come si poteva spendere un miliardo (all'epoca c'erano le lire) in auto, moto e viaggi,... e cose così.
Quella notte si parlò, invece, del Tempo.
Pensavamo a quante cose erano successe da quando, circa quattro anni prima, eravamo andati in Irlanda, per un corso estivo in un college vicino Dublino. Meditavamo sull'ominia mutantur e sul valore del carpe diem.
Ma l'apice della discussione si raggiunse quando Ciccio mi rivelò la sua drammatica scoperta: la vita passa nel tempo di un "tu".

Il tu è un verso onomatopeico, non il pronome personale della seconda persona singolare nella lingua italiana. Il tu è come un sussurro, è come il tic tac di un orologio, ma più breve, più lieve, più complicato da capire.
Il tu è come un segnalibro nella tua storia personale; ogni volta che lo rievochi ti ricordi del primo tu, che per me iniziò allora, ma per Ciccio risaliva a molto tempo prima. Al pronunciare questo suono magico la distanza tra il primo e il secondo, terzo o ennesimo tu, in un lampo viene annullata nella tua mente, e ti ritrovi a capire come tra un istante e l'altro, non ci sia niente. Tra una insonne notte londinese, ed una serata a New York, oppure un freddo meriggio trentino, passa il tempo di un tu. La profonda consapevolezza consiste nel capire, e percepire, che non c'è ontologicamente niente tra un istante e l'altro della nostra esistenza; niente se non tempo passato.
Certo, poi con un po' di calma e altrettanto ottimismo, ci si rincuora al pensiero delle mille cose fatte tra un tu e l'altro, ci si aggrappa ai ricordi, a quello che di materiale si è creato, magari anche a quanto si è maturati o innamorati tra una fase della propria vita e quella attuale.
E' normale; non riusciamo ad accettare la contrazione temporale creata dal tu. La paura dell'ultimo istante, quello dell'ultimo tu, quello che ci porterà a varcare l'ultima porta, per entrare nel "mondo del non ancora", ci induce ad interporre tappe ritenute significative tra una momento e l'altro di riflessione sul tempo.
La paura della sera ci fa mentire a noi stessi, circa la durata del giorno.
Bellissima e brutale a tal proposito è la poesia di Salvatore Quasimodo.

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera
Bella perché pur nella sua impostazione ermetica è così densa di significato da imporre ore ed ore di meditazione. Ma brutale, oserei dire crudele, per la visione disillusa della vita umana, del processo di consapevolezza dell'individuo e del suo destino improrogabile.

Ci sarebbe poi molto da dire sulla relatività del tempo, sia in senso fisico che riguardo alla percezione delle singole persone, specialmente in base al loro stato d'animo. Perfino nel Piccolo Principe di Antoine de Saint Exupery (libro che io ritengo pessimo) c'è qualche riflessione interessante su tale concetto. Ma esula dalla mia analisi attuale.
Quello che oggi pensavo, e che mi andava di scrivere, è che nasciamo, cresciamo e moriamo quasi nello stesso istante. Il presente è un punto della retta.
Un umanista del quattrocento mi pare scrisse dei versi che dovevano suonare pressappoco così:

Il Passato non è,
ma se lo finge la vana rimembranza;
il Futuro non è,
ma se lo pinge la credula speranza;
il Presente sol'è;
talché la vita è appunto:
una memoria,
una speranza,
un punto.

Partendo da semplici impressioni, mi sono trovato a digredire su cose che forse annoiano, e che nulla hanno a che vedere con il WWT.
Ma che importa.
Ho tempo da perdere.

17 ottobre 2007

Poetry Corner

Da oggi introduco un nuovo tipo di post su questo sito: il Poetry Corner. Il Poetry Corner non è tanto "un angolo della poesia ", come se fosse la rubrica periodica di una qualche rivista; va inteso come il luogo metaforico dove ritrovare la poesia, che spesso non trova spazio nella nostra vita. C'è un posto in Hyde Park, a Londra, dove chiunque può andare e parlare a ruota libera, magari tenendo improbabili comizi sulla fede o sulla politica: è lo Speakers' Corner. Beh, immaginiamo il Poetry Corner come questo virtuale luogo di libertà, dove non ci si vergogna di dire cose inutili... La poesia "l'abbiamo cacciata in un angolo", perché la modernità ci ha insegnato che è inutile, e delle cose inutili si può fare a meno. La società ci ha detto che è un vezzo da deboli, che non fa fatturato e non determina profitto (salvo per gli editori). Cedere al piacere della poesia è un lusso che si può permettere chi ha tempo da perdere. Ma a ben vedere ci si accorge che non è così. La poesia ci insegna a vivere bene, perché ci fa scorgere la bellezza nelle piccole cose, negli insuccessi, perfino nella sofferenza. Leggendo gli scritti di un mio amico, Luigi Sarto, in arte Jack, mi sono accorto che, indipendentemente dalle doti artistiche di ognuno, tutti siamo in grado di apprezzare la poesia. Che la poesia sia quella di un tramonto, quella di un dipinto, oppure quattro versi messi in fila, tutti possiamo concederci una passeggiata nell'angolo dimenticato della nostra emotività. Dal punto di vista dell'organizzazione di questo sito, sarà possibile richiamare tutte le poesie pubblicate, utilizzando l'etichetta a fine post chiamata appunto Poetry Corner. E inizio proponendo un classico, una di quelle poesie che è stata parte della mia filosofia di vita per anni.

LENTAMENTE... di Pablo Neruda

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, il colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.